Interviste e articoli dalla stampa italiana | 2006

La musica è un frutto maturo che non va fatto marcire

Ormai il “suono di Seattle” non esiste più. Resta solo la band di Eddie Vedder, che alla vigilia dei suoi quarant’anni (e del nuovo cd) dice: «Vogliamo restare aggressivi. D’altra parte questa America se lo merita»

XL Aprile 2006
di Giulio Brusati

Seattle – Cosa resta del “suono di Seattle”? I Nirvana sono cristallizzati nella storia. Soundgarden e Screaming Trees non esistono più. Gli Alice In Chains sono tornati insieme ma senza il cantante Layne Staley, morto d’overdose, non saranno più gli stessi. Perfino la Boeing, produttrice di aereoplani, ha smesso di far rombare i suoi prototipi a Seattle e s’è trasferita a Chicago.
Restano i Pearl Jam. La band di Eddie Vedder è uno dei simboli di Seattle, un marchio d.o.c., un pò – per essere irriverenti – come gli altri brand di questa città del nord-ovest: la catena di caffè Starbucks, la Amazon.com o il profilo dello Space Needle.
Tutti a Seattle conoscono i Pearl Jam: il poliziotto alla dogana («Siete qui per loro? Ok, dobbiamo perquisirvi le valige»), il tassista fricchettone («Pearl Jam rocks!») e perfino il barista troppo cool per ammetterlo («Mmm, preferisco i Death Cab For Cutie»). Chissà cosa diranno tutti, quando le canzoni del nuovo album, intitolato solo Pearl Jam, usciranno rabbiose dalle radio per decretare Vedder e compagni come la band più incazzata del rock.

Mister Vedder, il vostro nuovo Pearl Jam , anticipato dal singolo World Wide Suicide , è l’ottavo album che registrate in studio eppure è arrabbiato come il disco di una giovane band all’esordio. 
«Lo immagino come un treno in corsa. In realtà sono ancora troppo vicino per essere oggettivo ma sono d’accordo nel definirlo un disco arrabbiato.
Quando abbiamo iniziato non avevamo nessuna canzone registrata, nemmeno in versione “casalinga”. Eravamo solo noi cinque, in una stanza, a guardarci in faccia. Poi qualcuno ha preso in mano la chitarra e alla fine ci siamo trovati con l’imbarazzo di lasciar fuori alcune canzoni. Per noi la musica è il luogo perfetto dove sfogare l’aggressività. E’ un processo salutare. L’atmosfera aggressiva del disco è derivata da quello che vediamo intorno a noi, dalla politica degli USA nel mondo. Vogliamo comunicare un sentimento di ansietà, frustrazione e disperazione ma anche di speranza. Lo so, la tendenza, mentre s’invecchia, è di raddolcirsi. Per noi è diverso: vogliamo suonare in modo aggressivo. E ci piace l’idea di aver realizzato un disco con sei-sette nuove canzoni belle “toste” da aggiungere alle scalette dei concerti».

A dicembre lei compirà 40 anni e sarà probabilmente in tour. 
«Hey, suonare in una rock band è il mio lavoro! Non potete dirmi di smettere: questa è la mia vita. Beh, in effetti, arrivare a 40 anni… Quando vado in qualche locale, la maggior parte delle persone che è lì è più giovane di me. Se non fossi un musicista conosciuto, potrei risultare un pò buffo. “Hey, chi è quel vecchietto all’angolo? Dev’essere lo zio di qualcuno”. Invece sento che la mia presenza ha un senso. E sono contento di vedere allo stesso concerto ragazzini e persone più adulte. E’ bello che la musica trascenda le barriere delle generazioni, come a un concerto di Neil Young, degli U2 o degli Who».

Già, gli Who, i suoi idoli dichiarati, quelli che in My Generation cantavano “Spero di morire prima di diventare vecchio”. 
«Io spero di vivere prima di diventare vecchio. La prima canzone del nuovo album s’intitola Life Wasted , vita sprecata. E poi vecchio cosa significa? Prendiamo artisti come Neil Young. Lui non pensa a niente altro che alla sua arte, e di sicuro migliora con il tempo.
A noi interessa non predere l’energia dei live show. Siamo cresciuti tutti con la stessa passione. La cosa che accomuna Stone (Gossard, alla chitarra), Mike (McCready, altra chitarra), Jeff (Ament, il bassista), Matt (Cameron, il batterista) e me è l’amore totale per la musica. Per noi significa tutto, fin da quando eravamo ragazzi. Non fosse diventata la nostra vita, ora magari sarebbe l’ora di smettere, mollare tutto e crescere. Ma anche nella musica con gli anni e l’esperienza si matura».

In uno dei nuovi brani, Come Back, la sua voce sembra aver acquistato la capacità di affrontare una ballata soul alla Otis Redding. E’ un fatto di esperienza o deriva dall’aver smesso di fumare? 
«Smesso di fumare? Mah, diciamo che smetto ogni giorno verso le 3-4 di mattina per riprendere il giorno dopo. A dir la verità, dovrei smettere di cercare di smettere di fumare. E dovrei avere più cura della mia salute ma… Parliamo del brano: con Come Back forse è la prima volta che tentiamo di fare un brano soul. Per farvi capire la sua origine e perchè abbia cercato un approccio soul, devo rivelarvi che non avevo mai perso un amico così caro come Johnny Ramone ( l’ex chitarrista e vocalist dei Ramones, scomparso nel 2004, ndr ). Lui amava il vecchio r’n’r, anni 50-60. Mi ha fatto apire l’importanza di artisti come Elvis, Gene Vincent, Walker Brothers, e l’impatto della loro musica sulle rock band che ci hanno ispirato, Ramones compresi. Quando ho deciso di scrivere questa canzone per ricordarlo, volevo che fosse vecchio stile , come piaceva a lui».

Il primo singolo è l’apocalittica World Wide Suicide . Una scelta controversa: una canzone che parla della situazione del mondo, votato al suicidio totale. Avete in programma altre battaglie “politiche”, tipo la campagna “Vote for Change”? 
«Dopo la rielezione di George W. Bush ci siamo detti: ok, ‘sto tizio ce lo dobbiamoo tenere per un pò; rifocalizziamo le nostre energie. Personalmente mi sto concentrando sulla mia famiglia, sui miei vicini, sul mio quartiere. Ma non solo. Abbiamo perso alcune battaglie ma non la voglia di combattere.
Siamo coinvolti nella vicenda di Damien Echols, un ragazzo accusato ingiustamente e condannato a morte senza prove evidenti, una vicenda narrata dal documentario Paradise Lost . E’ una battaglia che dura da più di 10 anni. Mi ha insegnato molto, e non solo sulla pena di morte e sul sistema giudiziario americano.
Al confronto, quella con il promoter Ticketmaster per il costo eccessivo dei biglietti dei concerti non è stata poi ‘sta gran battaglia. Lo è diventata perchè loro avevano molto da perdere. Per noi era solo uno degli aspetti della nostra gestione della band e di come vogliamo trattare i nostri fan: con rispetto».

In linea con altre vostre scelte anticommerciali, come quella di non apparire nei videoclip. 
«In tutti questi anni abbiamo inseguito una certa invisibilità, fin dai tempi del primo album, Ten (1992), quando non volevamo nemmeno farli, i videoclip. A un certo punto ti rendi conto che fai un certo numero di soldi ma che ne fai guadagnare un sacco a tanta altra gente che nessuno conosce, che non viene bloccata per strada e che può vivere tranquillamente senza essere assediata da gente fanatica. Il nostro obiettivo non è la fama ma suonare in una band. Come scrittore di testi, per me è davvero una gran cosa non essere riconosciuto. Posso mantenere il mio anonimato: osservare e non essere osservato».

A proposito di scrittura: lei vive a Seattle, una delle città all’avanguardia nel campo dell’informatica e di Internet (Microsoft, Amazon.com). Eppure continua a comporre i testi dei Pearl Jam con una vecchia macchina da scrivere. 
«Trovo sia romantica, piena di storia. Beh, se dovessi tornare indietro nella storia magari dovrei usare anche una penna d’oca o incidere sulla pietra… Per me la macchina da scrivere è lo strumento di Hunter S. Thompson, di Ernest Hemingway… Non voglio neanche accostarmi per un secondo a scrittori come loro. Diciamo che usare la macchina da scrivere è la cosa più vicina a loro che io possa fare.
Vi racconto una cosa strana che mi è successa lo scorso anno. Ho una piccola roulotte cromata, una bolla di alluminio. La chiamo “il laboratorio”. Scrivere per me non è mai una cosa facile e così, una sera, per crearmi uno spazio tutto mio, mi sono rifugiato lì, in quella roulotte. A Seattle c’era la luna piena. Avevo la mia macchina da scrivere, la mia musica e una bottiglia di vino ma non mi veniva niente. Poi, tutto d’un tratto, ho cominciato a battere come un pazzo sui tasti e le pagine hanno cominciato a uscire piene di parole e a volare a terra come fiocchi di neve. Era una cosa folle: bevevo, fumavo e scrivevo. Allora mi sono ricordato che Hunter S. Thompson se n’era andato qualche giorno prima ( lo scrittore di Paura e delirio a Las Vegasda cui è stato tratto un film con Johnny Depp, si è sucidato nel febbraio del 2005, ndr ). Forse il suo spirito vagava intorno al pianeta. Mi sono immaginato che quella notte, colpita dalla luce della luna piena, la mia roulotte di acciaio brillasse come un diamante nell’oceano e che Hunter fosse sceso a vedere cos’era quella cosa luccicante. E che poi mi abbia visto seduto immobile alla macchina da scrivere e abbia deciso di aiutarmi. Me lo sono spiegato così, tutto lo scrivere di quella notte. Era veramente qualcosa che andava al di là di me stesso».

 

 

I Pearl Jam parlano a Rockol: ‘La nostra energia è un miracolo’

Rockol | 26 Aprile 2006
di Gianni Sibilla

Un gruppo che ha ritrovato serenità, che continua a combattere per i propri ideali, ma con più maturità e senza rischiare di andare contro i mulini a vento: questa l’immagine dei Pearl Jam nel 2006, così come Rockol li ha visti nella due giorni di Londra della scorsa settimana.
Il giorno dopo il concerto all’Astoria di giovedì 20, la band ha incontrato la stampa europea. L’idea di presentare “Pearl Jam” (in uscita venerdì 28) direttamente in Europa ancor prima che in America dimostra quanto la band tenga a questo lavoro, il primo di inediti da “Riot act” del 2002.
A parlare sono i due chitarristi, Mike McCready e Stone Gossard, e dalle loro voci traspare questa ritrovata serenità. Lo stereotipo vuole che solo chi soffre sia in grado di essere creativo, lucido e rabbioso quando ce n’è bisogno. I Pearl Jam smentiscono, almeno in parte, questa ipotesi. “Pearl Jam” è un disco dalla carica energetica e dalla lucidità senza eguali, oggi. Mike e Stone affermano di essere tranquilli: “Non ho rimorsi”, dice Mike. “Nella band la coesione è al massimo, ci scambiamo idee e musica…se leggete i crediti del disco, tutti hanno contribuito alla composizione. Siamo forse un po’ più vecchi, ma più consapevoli e grati per quello che abbiamo. Per certi versi ci sentiamo ancora dei debuttanti: per il tour che parte tra poco stiamo facendo molte prove”. “Ma è un miracolo l’energia che scatta quando entriamo in una stanza e iniziamo a suonare. Ci trasforma”, aggiunge Gossard.
L’anima irrequieta della band è sicuramente Eddie Vedder: lo si vede sul palco, dove ha un magnetismo e una passionalità che pochi altri frontmen possono vantare: è capace di andare subito in “trance”, trascinando tanto le 1.500 persone di un teatro quanto le 15.000 di un palazzetto. Ma è il vero “artista” del gruppo: dalle parole di Stone e Mike sembra trasparire che faccia una vita un po’ a parte. Siete insieme da 15 anni, ma dite spesso “non lo so” quando parlate di Eddie, si fa notare ai due chitarristi nel corso dell’intervista. “Ci parliamo tutto il tempo, ma Eddie è anche riservato. Ha il suo processo di composizione, gli piace essere misterioso”, spiegano i due.
Certo è che è difficile far parlare Mike e Stone dei testi del disco, ovviamente uno dei punti focali della band, ma che nel caso di “Pearl Jam” sono tutti opera di Vedder (in passato alcuni erano co-firmati dal bassista Jeff Ament o dal batterista Matt Cameron). Mike e Stone ci provano, però: “Le storie di questo album rappresentano frammenti e immagini di che cos’è la vita in America oggi, guardandoti in giro e sentendo quello che dicono i giornali, le radio e le tv. Eddie è davvero molto bravo a rileggere questi tempi di paura in chiave poetica”, spiega Mike.
In questo senso, c’è un verso che sembra avere colpito l’immaginazione di molti (citato anche nella recensione di Rockol dello scorso 11 aprile): “E’ nel sogno americano che sto smettendo di credere”, canta Vedder in “Gone”. “Quella canzone è stata scritta lo scorso ottobre, mentre eravamo ad Atlantic City”, spiega McCready, parlando del loro concerto nella Las Vegas della costa est dello scorso tour autunnale; la canzone venne poi suonata dal vivo il 2 ottobre e pubblicata sia nel relativo bootleg ufficiale che in una versione “demo” nel singolo natalizio per il fan club. “Eravamo tutti chiusi nelle nostre stanze d’albergo per diversi giorni, non c’era molto da andare in giro; se lo facevi vedevi tutto quel consumismo.. non dico che la canzone parli di questo, ma sicuramente è stata influenzata da questo clima”, conclude.
Il gruppo, però, sembra però apprezzare anche i paradossi o le contraddizioni apparenti, come quelle del singolo “Worldwide suicide”: “Ci piace il feeling di quella canzone”, dicono Stone e Mike all’unisono. “La melodia trascende la visione negativa della canzone. Ci fa sorridere, anche quando parla di quanto pazzo è il mondo. Dal brutto viene anche fuori del bello”.
Ancora più paradossale è la copertina del disco: un avocado tagliato a metà su sfondo blu. “Non credo abbia a che fare con il simbolo del partito dei Verdi californiani, come ha ipotizzato qualcuno”, dice Stone. “L’ha scelta Eddie, spiegandoci che era un oggetto semplice, che si può facilmente caricare di significati: è diviso a metà, ha un nocciolo duro con della polpa attorno”. “E poi se ne può fare un’ottima salsa, il guacamole”, ride Mike.
. Il tono della conversazione sale quando si parla del disco più in generale, o delle politiche del gruppo. Questo disco ha avuto una gestazione lunga, gli si fa notare. “L’abbiamo registrato in un periodo lungo, in un anno e mezzo, però facendo qualche tour in mezzo”, spiega Stone. “Ma alla fine siamo stati in studio non più di tre mesi, in diverse sessioni di 3, 4 settimane”, aggiunge Mike. “Abbiamo iniziato da trenta-quaranta idee – riff, ritmi, groove – per arrivare a completare 16, forse 18 canzoni, di cui 12 sono sul disco”.
E, a proposito di tour e delle scelte del gruppo, ha fatto un po’ di sensazione la scelta della multinazionale Clear Channel – Live Nation per l’organizzazione del loro tour italiano, che li porterà in Italia per 5 date dal 14 al 20 settembre prossimi (da Torino a Pistoia, passando per Milano, Verona e Bologna: vedi news). Ha fatto sensazione per un gruppo che ha fatto delle sue scelte radicali e della sua distanza dalle multinazionali una bandiera: è nota la loro battaglia contro Ticketmaster degli anni ’90, e la loro decisione di sganciarsi dalla Sony a fine contratto per pubblicare i dischi in autonomia, dandoli in licenza di volta in volta (paradossalmente, “Pearl Jam” è stato affidato alla J Records di Clive Davis, parte della BMG poi fusasi proprio con la Sony). Però è proprio a questo proposito che emerge la maturità del gruppo, che serenamente spiega le proprie scelte: “Alla fine abbiamo usato e stiamo usando anche le aziende che abbiamo combattuto o dalle quali ci siamo separati, a patto che ci propongano delle condizioni che vadano bene per noi e per i nostri fan”, spiega Mike. “Se non le usassimo sarebbe davvero difficile lavorare, ma non abbiamo più contratti di esclusiva con nessuno. Usiamo le grandi compagnie quando non c’è altra scelta, e se possiamo usiamo quelle piccole con persone che ci piacciono e che possono fare ciò di cui abbiamo bisogno. E’ una danza continua tra i tuoi ideali su come portare avanti la tua carriera e la realtà delle necessità lavorative di tutti i giorni. E’ un compromesso che deve compiere ogni gruppo, grande o piccolo che sia: imparare ad interagire con il resto del mondo.
“A proposito di concerti”, interviene Stone, “Non ci piace che i fan debbano viaggiare 100 chilometri fuori dalle loro città per vedere un nostro show, come capitava quando boicottavamo Ticketmaster e dovevamo suonare in posti fuori mano. Può essere spiacevole da parte nostra chiedere questa sofferenza al nostro pubblico. Forse sarà la maturità, o forse anche noi con l’età stiamo diventando reazionari…”, ride.
In Italia suoneranno in posti tutt’altro che fuori mano, tra cui l’amata Arena di Verona, teatro di uno spettacolare concerto della band nel 2000. “L’Arena è forse uno dei miei tre posti preferiti: suonare in mezzo a tutta quella storia fa effetto”. E gli altri due?”Il Gorge a Seattle”, dice riferendosi all’anfiteatro naturale poco fuori la loro città “E il Madison Square Garden di New York potrebbe essere la terza, tutte per ragioni diverse”. In questi posti sono stati registrati altrettanto spettacolari “bootleg ufficiali” (vedi lo spazio recensioni per quello inciso al Gorge lo scorso settembre 2005). Non c’è stato ancora un annuncio sulla (probabile) pubblicazione digitale dei prossimi concerti, ma questa è l’occasione per chiedere le ragioni di questa politica che va avanti ormai dal 2000, e che ha portato la band a pubblicare oltre 200 concerti e a vendere quasi 2 milioni di dischi live. “È stato naturale”, spiega Mike. “Volevamo semplicemente essere più coinvolti nel processo di produzione e pubblicazione dei nostri album, e sentivamo di gente che si scambiava registrazioni amatoriali dei nostri concerti, talvolta anche pagandole a caro prezzo. Grazie alle tecnologie digitali, siamo riusciti a mettere in piedi un sistema economico di registrazione dei nostri show. Abbiamo capito che potevamo anche venderli a un prezzo ragionevole. Li pubblicheremo sempre di più attraverso il web e sempre meno attraverso i negozi normali, così i fan potranno scegliersi comodamente ciò che vogliono, un concerto o una particolare canzone”.
Nel prossimo tour suonerete “Love boat captain”, la canzone dedicata ai ragazzi morti durante il vostro concerto di Roskilde del 2000? “Certo che sì. Pensiamo ogni giorno a quella tragedia”, dice un rabbuiato Stone. “E’ difficile parlarne. Quel festival ha 25 anni di storia e non era mai successo nulla del genere, chissà perché è capitato proprio quella sera”. “Ora, da quel giorno, stiamo molto attenti a controllare ogni dettaglio della sicurezza dei nostri concerti, in modo da poterne rispondere direttamente”, aggiunge Mike. “In quel caso era un festival, non un nostro concerto. Ma abbiamo suonato, alla fine dell’anno scorso, ad alcuni festival sudamericani, fidandoci, ed è andata bene”. L’ultima domanda riporta il discorso sui grandi ideali: i Pearl Jam sono più maturi, ma credono ancora che la musica possa cambiare il mondo? “Sicuramente cambia lo spirito delle persone” dice Stone. “Trasforma il loro punto di vista, la loro percezione. Ieri stavo ascoltando una canzone dei Queen, e mi ha aperto gli occhi: ero in Inghilterra, ho ripensato a Freddie Mercury e alla sua storia… Questo è il potere della musica”.

 

 


«Anche noi cambiamo: nati piromani siamo pompieri»

A Londra per la nuova tournée, la band di Seattle pubblica il disco del ritorno al rock duro delle origini: «Raccontiamo l’America come la viviamo oggi, delusioni comprese»

Il Giornale | 22 Aprile 2006
di Paolo Giordano

D’altronde succede sempre così, e meno male: si cresce. A quarant’anni, poi: i Pearl Jam, loro che sono stati i guerriglieri del grunge, i cronisti decadenti e arrabbiati dell’America anni Novanta, si ritrovano finalmente a suonare in equilibrio: da una parte la solita «antibushite», con tanto di show e schiamazzi contro il presidente degli Stati Uniti e la sua politica («Non è solo un lobbysta, è un lobbysta texano»); dall’altra il realismo, cioè l’impossibilità di rimanere una delle più grandi rock band del mondo – 40 milioni di dischi venduti in 15 anni – senza accettare compromessi, anche ideologici. Senza fare, insomma, concerti e dischi con Clearchannel e SonyBmg, le multinazionali simbolo di quel capitalismo cui si è vomitato addosso per dieci anni. E due di loro, i chitarristi Mike McCready e Stone Gossard – tipini puliti e sopravvissuti di una Seattle drogata – lo ammettono sorridenti qui, in una suite del soffice Mandarin Hotel, mentre parlano del nuovo, durissimo ciddì omonimo che uscirà venerdì oppure del tour mondiale che li porterà anche in Italia, mentre insomma – come gli Yardbyrds allora o i Rem oggi – fanno i conti con il loro «yin e yang», con il loro nuovo equilibrio che della realtà, per fortuna, considera il giorno ma anche la notte.
Gossard e McCready, per Rolling Stone il vostro nuovo ciddì è il migliore da dieci anni.
«Abbiamo descritto la nostra America e come la viviamo. E nei testi scritti dal cantante Eddie Vedder c’è il senso politico di quello che siamo noi».
Ma è un disco molto aspro, talvolta durissimo.
«Questo è il nostro stato d’animo».
La canzone Gone recita: «Questo è il sogno americano di cui mi sto ricredendo».
«È stata composta ad Atlantic City, dove suonavamo al Casino. Dalle finestre dell’hotel si vedeva il lusso per strada ma si coglievano anche la solitudine, la voglia di libertà e di fuga della gente».
A metà degli anni Novanta avete inciso un disco, Mirrorball, con Neil Young. Ora lui sta per pubblicarne un altro in cui chiede l’impeachment di Bush.
«Siamo d’accordo al cento per cento con quello che dice lui, anche se per noi è prima di tutto più importante andare via dall’Irak. L’abbiamo visto l’altro giorno alla Cnn, il vecchio Neil: diceva parole semplici, era nel giardino di casa, vestito col suo solito cappellaccio».
Lui è rimasto un duro, voi avete abbassato i toni. Siete più esistenzialisti e meno contestatori.
«Abbiamo trovato condizioni migliori per noi e per i nostri fans. Con una multinazionale che organizza i tuoi concerti (anche se non abbiamo l’esclusiva), la gente può seguirti meglio. Diciamo che è il frutto dell’esperienza. Come dite in Italia? Si nasce piromani e poi si diventa pompieri».
Questa è la terza via del rock: basta utopie belle e impossibili. Bono e gli U2 lo confermano.
«Quando lui ci è venuto a trovare durante un concerto a Toronto, ha cantato con noi Rockin’ in the free world di Neil Young. Un momento indimenticabile».
Ecco la vostra nostalgia per il passato. D’altronde qualcuno ha detto che siete tra gli eredi degli Who e in Gone ci sono i ringraziamenti a «P.T.», che potrebbe essere proprio il chitarrista Pete Townshend.
«Chissà, è un’idea di Eddie Vedder, che ama essere misterioso, è fatto così e bisogna rispettarlo».
Ma sembra che tra voi ci sia una spaccatura: lui da una parte, voi dall’altra.
«Ma se ci parliamo tutti i giorni. Eddie vive a modo suo».
Ma si può ancora pensare che la musica cambi il mondo?
«Il mondo no. Gli spiriti sì, e anche i punti di vista».
E quanto ha cambiato voi, dagli esordi tossici nella periferia americana fino ad oggi?
«Mai stati così felici. Nel ’96 stavamo per scioglierci, oggi suoniamo insieme nella stessa stanza con più creatività di prima. E, se si ascolta il nuovo disco, tutta questa energia viene fuori. Nemmeno noi ce l’aspettavamo così».

 

 

Pearl Jam, proclama verde per la band Usa più politica

Il ritorno in Europa dopo 6 anni (in Italia a settembre)
Gossard: sempre contro Bush e non solo per la guerra 

Il Corriere della Sera | 22 Aprile 2006
di Andrea Laffranchi

LONDRA – Bentornati. Strano che il gruppo che ha fatto del legame con i fan un punto di forza sia rimasto lontano dall’Europa per 6 anni. Era il 2000 quando i Pearl Jam, quintetto di Seattle, suonarono per l’ultima volta nel vecchio continente. Assenza interrotta giovedì con un concerto all’Astoria di Londra. «Ne è passato di tempo… Grazie per aver aspettato», così il cantante Eddie Vedder, camicia di jeans aperta su t-shirt nera, ha ringraziato i circa 1.600 presenti. Quello di allora fu un tour maledetto: al festival di Roskilde, in Danimarca, 9 persone morirono schiacciate dalla folla mentre loro suonavano. Il ricordo fa cadere il gelo sui volti dei due chitarristi Mike McCready e Stone Gossard: «È stato un momento terribile al quale pensiamo ogni giorno. Prima o poi ci torneremo in Danimarca». L’attesa per questo tour è fortissima: i bagarini che si aggiravano attorno a Charing Cross chiedevano circa 300 sterline, 10 volte il prezzo del biglietto. In Italia arriveranno a settembre per cinque date: Bologna (14), Verona (16), Milano (17), Torino (19) e Pistoia (20).
Oltre a classici come «Even Flow», «Alive» e «Better Man» il concerto ha svelato anche le canzoni di «Pearl Jam», ottavo album in studio della band di Seattle (esce il 28 aprile). Che Gossard riassume così: «La musica è fresca, cruda e piena di energia. I testi invece sono lavorati parola per parola e danno profondità al disco». Testi che affrontano la guerra nelle sue mille sfaccettature – dalla disperazione delle donne che hanno un compagno al fronte («Army Reserve»), alle morti che ci entrano in casa con i media («World Wide Suicide») a quelle in nome di Dio («Marker in the Sand»), i drammi dell’America di oggi come la disoccupazione («Unemployable») o il «sogno americano nel quale non credere» («Gone»): «Sono i tempi in cui viviamo e che ci fanno paura. Ci sono molte cose per le quali amo vivere in America, ma sembriamo degli idioti agli occhi del resto del mondo per colpa del nostro presidente», sospira McCready. E il collega: «Bush ignora che il mondo è un arazzo da leggere nel suo complesso. La risposta non può essere solo: più commercio. Io amo le cose piccole, anche nel mondo degli affari. Le multinazionali non aggiungono molto alla qualità della vita».
Anche la copertina del disco ha un taglio politico. È la foto di un avocado spaccato a metà che potrebbe far pensare a una compilation lounge griffata da un ristorante alla moda. In realtà ricorda un simbolo usato dai Verdi californiani. Partito che la band sostiene attivamente. «In Usa abbiamo bisogno di più di due partiti. Avere solo democratici e repubblicani è limitativo. Ma quella copertina in realtà ha solo un valore visuale».
Le due ore dal vivo hanno mostrato una voglia di rock puro con le radici ben piantate negli anni ’70 dei Led Zeppelin, ma che parla anche la lingua di U2 e Springsteen. Rock a tutta passione, con grandi spazi per gli assoli di chitarra. E con un leader come Vedder – atteggiamento sciamanico sul palco e una faccia, con barba incolta e capelli lunghi, da Russell Crowe – non c’è che da rimpiangere ancora questi sei anni.