di GIUSEPPE VIDETTI
La Repubblica | 30.08.2009
Il leader dei Pearl Jam, alla vigilia del nuovo album, racconta una stagione gloriosa. Vecchi eccessi, impegno politico e un rammarico: non essersi chiarito con Kurt Cobain.
QUANDO due decenni fa arrivò in città da San Diego – lui che era nativo di Evanston, Illinois – aveva appena venticinque anni e tanta rabbia da smaltire. Seattle accolse Eddie Vedder, figlio randagio d’America, rocker per vocazione e surfer per hobby, a braccia aperte. La nuova rivoluzione del rock, l’ultima, stava partendo da lì. Il grunge, aggressivo movimento postpunk nato nell’angolo più remoto degli Usa, aveva bisogno di nuovi profeti. Il fragile Kurt Cobain non ce l’avrebbe fatta a farsi carico da solo di tutte le responsabilità del nuovo corso. Nirvana e Pearl Jam diventarono i Sex Pistols e i Clash del grunge. E insieme a una dozzina di altre band trasformarono la città della pioggia nella nuova capitale della musica.
Tra Vedder e Cobain non correva buon sangue quando il leader dei Nirvana si sparò un colpo nella sua villa di Seattle, nel 1994. A Eddie restò il rammarico di non essersi mai chiariti, ma lo consolò il fatto che Kurt in un’intervista avesse assolto per meriti quei “nemici” che aveva accusato di collusione con le major. Oggi i Pearl Jam, che il 22 settembre pubblicano il nuovo album Backspacer, si avviano a diventare una delle band più longeve del rock, un’aspirazione che Vedder, fan degli Who e degli Stones, coltiva da sempre. Ha quasi quarantacinque anni, un matrimonio naufragato alle spalle (con Beth Liebling, sposata a Roma poche settimane dopo il suicidio di Cobain), una compagna (la modella Jill McCormick) e due bambine.
Si rilassa nel salone del quartier generale della band, vista sugli stabilimenti Boeing, candele e incenso, sigarette e una bottiglia di rosso. Ha l’aria soddisfatta, il fascino del Jeff Bridges di 8 milioni di modi per morire, pronto a snocciolare il manuale del perfetto rocker del nuovo millennio. “La grande paura è passata”, dice riferendosi all’elezione di Obama dopo il fallimento della campagna Vote for Change, di cui fu parte attiva per contrastare il secondo mandato di Bush. “Dobbiamo rafforzare il concetto che l’arte può essere una forma di protesta non violenta”, insiste. “Il luogo comune vuole che noi artisti facciamo parte di una sorta di élite hollywoodiana, specie protetta che dovrebbe tenersi lontana dalle beghe politiche, evitare di esprimere il proprio punto di vista, ignorare la propria educazione umanistica e fregarsene dei problemi del mondo. Noi però non viviamo a Hollywood, ma nella fottuta Seattle, paghiamo tasse salate e abbiamo il diritto di esprimere un’opinione. Questo mi hanno insegnato la musica con cui sono cresciuto e i romanzi che ho letto. Questo ho appreso da Woody Guthrie, Pete Seeger, Bruce Springsteen, Pete Townshend, Neil Young. Dai Clancy Brothers e dalla musica irlandese: pezzi di storia incorniciati in una canzone. E non dite che non ci è consentito farlo, perché il nostro lavoro è proprio questo. I democratici chiamarono il Boss, Ben Harper, James Taylor e le Dixie Chicks a sostenere Vote for Change. Chi ha suonato per i repubblicani? Un paio di scalcagnati cantanti di country & western che Bush teneva al guinzaglio”.
Ammette che la sconfitta fu cocente in quell’autunno di cinque anni fa in cui i democratici credevano di spuntarla. “Quando Bush fu rieletto non potei fare a meno di pensare: ‘Fottetevi americani, perché siete male informati e basate il vostro voto su valori che non posso accettare. Voi, ignoranti, credete che George Bush possa ancora essere l’uomo giusto dopo quattro anni di amministrazione diabolica?’. Mi chiusi in me stesso, nei miei affetti. Poi, quando Obama si è presentato per i democratici, ci ha ridato la speranza di avere qualcosa per cui lottare. La notte in cui fu eletto, volevo uscire, ballare per strada. Il giorno dopo, Seattle sfoggiò un raro giorno senza pioggia, il cielo era limpido, la gente felice e quei pochi che non avevano votato Obama si riconoscevano al primo sguardo: tristi, delusi, patetici”.
La speranza ritrovata è lo spirito guida di Backspacer, i testi del compositore che ha scritto le canzoni più tormentate del grunge non sono mai stati così ottimistici. “Finalmente un briciolo di speranza, dopo dieci anni di canzoni arrabbiate”, conferma. “Il cambiamento è evidente: basta politica, abbiamo bisogno di un break. Un giorno, mentre lavoravo alle nuove canzoni sotto il portico di casa, mi sono preso una pausa e ho chiamato Tim Robbins, il mio amico regista (per il quale ha scritto la colonna sonora di Dead Man Walking, ndr ). “Tim, hai mai provato a scrivere dopo le elezioni?”. E lui: “No, non ancora, ma sento che ora è tutto diverso, non so dirti perché, ma tutto è completamente diverso”.
In Backspacer riaffiorano la passione e la fierezza del fan scatenato di Who e Ramones (Vedder è presidente del fan club della band). “Il mondo del rock è assai meno romantico di un tempo”, ammette sprofondando nella consueta inquietudine. “Stiamo perdendo il disco e fra un po’ perderemo anche il piacere di sfogliare un libro, di lasciarlo a metà e di riprenderlo dopo un anno, di riporlo sullo scaffale”.
Il furore (e l’incoscienza) del grunge fa ormai parte di un’esperienza indispensabile quanto remota. Quel fan che subito dopo il suicidio di Cobain andò a schiantarsi con l’automobile contro il cancello della sua villa di Seattle è un incubo lontano, come i nove ragazzi morti durante un concerto dei Pearl Jam al festival di Roskilde, nel 2000, schiacciati contro le transenne del sottopalco da una folla troppo entusiasta. “In questi anni ho capito che la vita è preziosa. Non voglio più perdere d’occhio il privilegio che mi deriva dalla mia esperienza di rocker e la magnificenza di quel che ci circonda, la bellezza di una conchiglia che trovi nella sabbia, di una nuvola che si forma nel cielo, delle gocce di pioggia che si rincorrono in una pozzanghera. Siamo così tormentati dalle cattive notizie, strangolati da mille paure che non riusciamo più a vedere le meraviglie che il pianeta ci regala”.
Nella famiglia Eddie ha trovato la risposta alle sue inquietudini post adolescenziali espresse in maniera così lucida, poetica e rabbiosa nei primi due album, i capolavori dei Pearl Jam, Ten (1991) e Vs (1993). Per anni al giovane Vedder fu fatto credere che il padre biologico fosse il secondo marito di sua madre; solo molto più tardi, quando ormai il vero padre era morto di sclerosi multipla, seppe la verità. Per questo, oggi, non se la sente di sacrificare sull’altare del rock l’amore per le sue bambine.
“La prova più dura cui la paternità mi ha sottoposto è il cambiamento radicale del mio stile di vita”, racconta tormentandosi il pizzetto. “Sono stato per decenni schiavo del R&R e di tutto quello che altri schiavi del R&R hanno fatto, scritto, suonato e cantato. Poi sono diventato padre e ho dovuto fare un passo indietro. Sarebbe irresponsabile uscire ogni sera, bere, fumare e andare ai concerti fino all’alba. I bambini pretendono attenzione. Non hai più un mese, una settimana o un giorno per scrivere una canzone. Ti resta un’ora. Li metti a letto, poi cominci a lavorare sodo, e la mattina gli canti la nuova canzone mentre li accompagni a scuola. Una volta vidi mia figlia di tre anni che ballava in perfetta solitudine una danza bellissima e misteriosa sulle musiche di Into the Wild (la colonna sonora che ha composto per il film di Sean Penn, ndr): è stata una delle emozioni più grandi mai provate. L’altra fu quando aveva due anni. La mia compagna era in macchina con sua madre. Accese la radio, mia suocera chiese. “È Eddie che canta?”. La piccola dal sedile posteriore rispose: “No, è Cat Stevens”. E aveva ragione! Adesso ho un’altra figlia da educare alla musica. Ha quasi un anno ed è nata lo stesso giorno di Bruce Springsteen, John Coltrane e Ray Charles (il 23 settembre). Una buona partenza, no?”.