Eddie Vedder e la sua gang hanno qualcosa da dire — e da lanciare — mentre quelli che un tempo erano i giovani uomini arrabbiati del rock tentano un nuovo approccio
Spin | Ottobre 2009
By Josh Eells
Traduzione a cura di Irene
Non potete capire cos’è la morte se non vi siete mai trovati a pochi centimetri da un’ascia lanciata da Eddie Vedder. Non che Vedder non sia prudente. E’ semplicemente… concentrato. Ha questo aspetto: conoscete quello del video di “Jeremy”, vagamente da lupo – labbra arricciate, denti in mostra, lo sguardo da pazzo. Afferra il manico con entrambe le mani, alza la lama all’indietro sopra la testa, e la lascia volare, guardandola roteare verso il bersaglio in un arco elegante, per poi conficcarsi nel suo obiettivo – un tronco di cedro largo tre piedi – con un profondo, soddisfacente “thunk”.
“Centro. Segna” dice Vedder, alzando il pugno. “Hey, vuoi un’altra birra?”
A questo punto sono stato in compagnia di Vedder per circa otto ore. Abbiamo fatto surf, abbiamo nuotato, siamo andati in barca. Abbiamo bevuto e bevuto ancora. Ho conosciuto sua moglie; ho “battuto il cinque” con le sue figlie. Ho quasi iniziato a sentirmi parte della famiglia. Ricordate: questo è un uomo estremamente riservato che scaccia via l’adulazione con miti affermazioni come “Non voglio che la personalità diventi più grande della musica”. (Questa evasività di principio, ovviamente, ha il solo effetto di rendere l’adulazione più profonda). Come cantante dei Pearl Jam, è approdato nel mondo delle superstar nei primi anni ’90, poi ha passato i quindici anni successivi a smantellarlo, un guerrigliero del suicidio di carriera che è diventato una leggenda nel rock: la band ha boicottato Ticketmaster, rendendo quasi impossibile fare tour. Hanno rifiutato di fare video, una decisione che questa rivista una volta ha definito così “profondamente anticommerciale… che rimane virtualmente senza pari”.
Ma ora siamo qui nel 2009, e i Pearl Jam hanno un nuovo album che sta per uscire, insieme a qualcosa che, un osservatore poco esperto potrebbe anche chiamare una strategia di marketing. Appaiono in pubblicità televisive, in Rock Band, in Cold Case. Vendono canzoni ai video games e suonerie alla Verizon. Stanno arrivando nel negozio Target vicino a voi. E questo pomeriggio, in una delle sue case in West Seattle, Eddie Vedder ed io beviamo birra e lanciamo asce. Che può voler dire solo una delle due cose: o questa è la scena della prima imboscata/omicidio di un giornalista musicale mai avvenuto nella storia. Oppure i Pearl Jam hanno deciso finalmente di prenderla meno seriamente.
“Stai indietro!” grida, posando la sua birra. Whoosh, whoosh, whoosh. Thunk.
Los Angeles, due mesi prima: la macchina è pronta. I Pearl Jam sono agli Universal Studios per la registrazione della prima puntata del Tonight Show With Conan O’Brien. Nel backstage, la scena è quella del pandemonio coreografato: gli assistenti di produzione gridano nei walkie-talkies, le pagine nelle cartelline vengono controllate e ricontrollate, i supervisori… supervisionano. Anche i membri della band, comodamente rifugiati nei loro due camerini, non sono al riparo dagli intoppi della prima serata. Circa 45 minuti prima dello show, il bassista Jeff Ament e il batterista Matt Cameron si accorgono di essere chiusi a chiave nel loro camerino. Cameron dà uno strattone alla maniglia – neanche i suoi avambracci da batterista sono d’aiuto. “C’è nessuno lì fuori?” grida attraverso la porta. “Ragazzi, siamo fottutamente chiusi dentro!” urla Ament. “Qualcuno chieda a Max Weinberg se può suonare le parti di batteria di Matt!”
Potrebbero essere più al sicuro lì dentro. Tre ore fa, è arrivata la notizia che il nuovo album della band, Backspacer, sarà auto-pubblicato e distribuito in partnership con Target. Ci sono delle sfumature nell’accordo, ma per il momento tutto quello che si sa è che i Pearl Jam, i convinti portabandiera dell’anticonsumismo No Logo, seguiranno le orme di Christina Aguilera e dei Black Eyed Peas. Fuori, nell’area di carico, il loro manager da 19 anni, un imperturbabile uomo di nome Kelly Curtis, è al telefono per cercare di limitare i danni – mentre allo stesso tempo prepara la band per il loro più grande esordio negli ultimi dieci anni.
Tornando al camerino (ora aperto), Ament sta guardando ESPN senza audio. Sei settimane fa, lui e il tour manager della band sono stati rapinati fuori dagli studi Southern Tracks di Atlanta da tre aggressori armati di coltelli che, a quanto si sa, hanno rubato un BlackBerry, il passaporto di Ament, e $3.000 cash. Ament è stato curato per ferite alla testa.
“Stai bene?” chiedo, come presentazione. La sua replica è secca: “Non parlerò di Atlanta”.
Okay, allora.
Barbuto e serio, il 46enne Ament è la voce della bussola morale del gruppo. Mike McCready lo definisce “intenso, decisionista, uno che fa domande su tutto.” Insieme al chitarrista Stone Gossard, è colui che ha testimoniato davanti al Congresso durante la crociata contro Ticketmaster, e sin dall’inizio ha supervisionato la maggior parte dei lavori visivi della band attraverso il suo laboratorio di graphic-design. Sembra il membro dei Pearl Jam che meno di tutti possa essere a favore di un salto nel letto con una corporation che è attualmente al No. 28 della classifica dei 500 di Fortune.
Però: “Target ci è sembrato semplicemente il miglior partner possibile in questo momento”, spiega Ament. “Sono più aggiornati. Hanno un grande lato filantropico”. E’ stato anche, secondo Curtis, l’unico grande rivenditore che ha voluto condividere i diritti di distribuzione con i negozi di musica indipendenti e il fan club dei Pearl Jam – un must per la band. “Abbiamo passato gli ultimi quattro anni a pensare a questa merda” dice Ament. “Non è che abbiamo scelto Target perché ci piaceva il logo.” Per la band, il risvolto finanziario è chiaro. Pubblicando l’album da soli, hanno un ricavo più grande su ogni vendita – qualcosa come $4 o $5 paragonato ai circa $2 con una major. Poiché pagano tutto in anticipo, non c’è neanche nessun anticipo della casa discografica da rimborsare. E, forse più importante di tutto, possiedono i diritti del master di registrazione, cosa che neanche il loro eroe Bruce Springsteen può attualmente rivendicare.
Tuttavia, c’è una certa ironia karmica nell’idea che una band che ha mandato a farsi fottere le corporation Americane per così tanto tempo, possa alla fine ammorbidirsi. Proprio oggi pomeriggio, in un post sull’accordo, su Stereogum, un commentatore ha riassunto perfettamente l’inevitabile reazione: “Sembra che quei delinquenti ad Atlanta abbiano rubato anche la loro credibilità”.
Chiedo se sono preoccupati delle ripercussioni.
“Oh sicuro” dice Ament. “Specialmente per il modo in cui i media faranno uscire la notizia. Saremo accomunati agli Eagles, agli AC/DC. Ma è totalmente diverso. E la gente dice ‘Oh, i Pearl Jam stanno lavorando con questa corporation’. ‘Fanculo! Siamo stati per 20 anni con la Sony”.
La registrazione va bene. Suonano “Got Some” da Backspacer, scherzano con Will Ferrell, regalano una chitarra a Conan. Poi, dopo una cena post-show all’Ivy, si separano; come la maggior parte dei gruppi che hanno condiviso un bus per 20 anni, non stanno molto insieme quando non lavorano.
Di ritorno al loro hotel a Santa Monica vicino alla spiaggia, solo il chitarrista Mike McCready si attarda nella lobby. “Dai un’occhiata” dice, sorridendo come un bambino che ha appena messo in tasca un pacchetto di figurine del baseball. Tira fuori una targa con scritto PEARL JAM e il logo del Tonight Show, appena sgraffignata dalla porta del camerino. “Molto cool, eh?”
Uno dei grandi miti riguardo i Pearl Jam è che non abbiano mai voluto avere successo. La verità è che la voglia di successo è la prima cosa che li ha portati a stare insieme. Gossard e Ament si divisero dai Green River, i padrini del grunge di Seattle, perché volevano un contratto con una major, al contrario del resto della band. McCready era anche più ambizioso, trasferendosi a Los Angeles nel 1986 nella speranza di avere successo con la sua band hair-metal, gli Shadow. (Il massimo che ottenne fu una serata di apertura per l’ex chitarrista dei Duran Duran, Andy Taylor)
“Ovviamente vogliamo vendere dischi” dice McCready la mattina dopo, passeggiando sulla spiaggia. “Non è mai stata una cosa che non volevamo fare. Ma all’epoca, i riflettori si accesero molto velocemente, e Ed ha voluto tirarsi indietro perché la sua vita era stata completamente sconvolta. Io volevo continuare a correre. Pensavo ‘Per tutta la vita ho suonato in una band. Ora che abbiamo questa possibilità, vediamo fin dove possiamo arrivare'”.
I Pearl Jam non hanno continuato a correre. Ma adesso, stanno iniziando. Come parte dell’accordo con Target, la band ha accettato di girare un video pubblicitario con il regista Cameron Crowe, un amico ancora prima che li facesse apparire in Singles nel 1992. Stanno lavorando anche con i realizzatori di Rock Band per una edizione del gioco dedicata ai PJ, che uscirà l’anno prossimo. E il fatto che 9.2 milioni di spettatori si siano sintonizzati sul The Tonight Show può solo aiutare.
“Abbiamo sempre cercato di sovvertire il business” dice McCready. “Ma adesso che stiamo per far uscire un disco da soli, ci stiamo prendendo la responsabilità verso noi stessi di affondare o nuotare. Se questo significa scrivere una canzone che suoni come un successo radiofonico mainstream, lo faremo. E se significa andare in TV per auto promuoverci, faremo anche questo”.
McCready scava nella sabbia con la punta del piede. “Ad un certo punto” dice “pensi, contro chi stiamo ancora combattendo?”
__________________
“Benvenuto nel mio nascondiglio” dice Eddie Vedder, salutandomi con una stretta di mano e una birra.
E’ seduto nella veranda di una casa di tre stanze in demolizione sulla riva del Puget Sound di Seattle, proprio ai piedi della collina dove c’è la casa in cui vive dal 1992. Ha comprato questo posto lo scorso settembre e l’ha rimesso a nuovo trasformandolo in un capanno da surf. Si tratta decisamente di un work in progress: assi da verniciare, nudi pavimenti di cemento, fili elettrici scoperti, nessuna tubatura. (C’è una toilette portatile sul retro; ma Vedder di solito fa pipì nel giardino.) Ha costruito da solo la recinzione con uno scavatore e una levigatrice. E anche se ancora non lo sa, tra circa 24 ore troverà un brutto esemplare di una pianta velenosa spazzando il cortile posteriore.
Vedder, 44 anni, oggi è in tenuta relax da spiaggia: barba sottile, capelli lunghi raccolti sotto un cappellino da baseball, maglietta senza maniche, pantaloncini da surf. Una sigaretta American Spirit in bocca, e labbra bianche per la protezione solare. Sotto il portico, il suo cane, un bastardino marrone di nome Hank, è sdraiato vicino a un frigo portatile pieno di Corona. Vedder ne pesca una, poi prende un binocolo dal tavolo e si mette a guardare l’acqua. “Allora, vuoi fare un po’ di paddle?”
Prendiamo le tavole da surf e scendiamo verso la riva. “Sono un surfista che vive in esilio” sospira Vedder. Ogni tanto prende qualche onda da una barca di passaggio, ma perlopiù deve mettersi a fare paddle-boarding, un ibrido surf-canoa che ha imparato dal suo amico surfer professionista Laird Hamilton. Durante il suo recente tour solista, ha fatto paddle quasi in ogni tappa: l’Hudson, il Potomac, un lago a Nashville – ovunque tranne Philadelphia. (“C’era una fontana nell’hotel” dice. “Ci ho fatto un pensierino”.) Siamo fuori da circa mezz’ora quando appare una figura sulla riva, che gesticola e chiama suo padre. “Credo sia la mia bambina” dice Vedder. Torniamo indietro pagaiando. In piedi sugli scogli, con un costume da bagno a fiori, c’è sua figlia di cinque anni, Olivia. Dietro di lei c’è sua madre (e moglie di Vedder), la modella Jill McCormick, con Harper di dieci mesi. Le ragazze sono appena tornate da una giornata allo zoo; ora stanno andando in piscina.
Vedder prende Olivia per mano – la chiama Oli – e si incamminano insieme verso l’acqua. Lei gli racconta degli orsi polari e dei giaguari e del baby gorilla che era anche più piccolo di lei. Prende un piccolo granchio e lo dà a lui come regalo; lui ne trova uno e glielo dà. “Aww” dice lei, “il tuo è più grande”. Dopo pochi minuti, Jill la chiama – Papà deve tornare al lavoro. Vedder si inchina, solleva Olivia, le dà un bacio sulla guancia. Lei gli si stringe al collo. “Ti voglio bene, papà.” “Ti voglio bene anch’io”.
Tornando in acqua, Vedder dice “Cerco di non stare lontano da loro per più di due settimane di seguito”. Lui è cresciuto senza conoscere il padre, che è morto quando aveva 13 anni, e sembra determinato a non far ripetere la storia. Porta Olivia alle partite dei Mariners, le ha insegnato come usare la mazza da baseball, le ha spiegato onde e maree. Questa estate le ha dato lezioni di surf al North Shore di Oahu, corrompendola con le granite Hawaiane. Vedder dice che probabilmente avrebbe fatto l’istruttore di surf se non fosse stato un musicista. Ma ha anche questa fantasia: “A volte penso che la cosa migliore che potrei fare sarebbe prendere un carro attrezzi e andarmene in giro. Buttare dietro una motosega, magari un set di cavetti per l’accensione. Cercare persone da aiutare”. In qualche modo, detto da Vedder – colui che nel mondo del rock è il più vicino a Holden Caufield – non suona palesemente ridicolo. Si può sentire in “The Fixer”, il singolo tratto da Backspacer. Il testo della canzone è semplice: Vedder canta di qualcosa che non funziona, quindi dice cosa farà per migliorarla. Se è freddo, farà un po’ di fuoco; se è giù, cercherà di risollevarla.
“Io sono il tipo di persona che si sveglia e chiede ‘Cosa posso aggiustare?'” dice. “E per un lungo periodo di tempo, se non c’era niente da aggiustare, rompevo qualcosa. Così suppongo che in relazione al fatto di essere felice – almeno non rompo più niente di proposito”.
__________________
E’ l’ultimo weekend di luglio, e Seattle sta impazzendo. Le massime hanno raggiunto i 90 gradi, le nuvole di pioggia sono scomparse da settimane, e i pallidi Washingtoniani si spogliano delle loro flanelle marroni e festeggiano come druidi al solstizio d’estate. Un sabato pomeriggio particolarmente radioso, ricevo un messaggio da Stone Gossard: Stiamo facendo un dock party a casa – raggiungici. Posta sulle rive del Lake Washington, la tenuta di Gossard è un santuario alla modestia moderna: pareti di vetro, un patio, un semplice molo di legno.
Gossard, 43 anni, con un paio di pantaloncini da bagno verdi, ha appena messo giù per un sonnellino sua figlia di due anni, Vivian, e ha i capelli ancora umidi dell’acqua del lago. Ci sediamo sul molo, con il suo cane, Basie, rannicchiato ai nostri piedi. Per Backspacer, lo storico collaboratore Brendan O’Brien ha prodotto la band per la prima volta da Yield del 1998. Hanno lavorato velocemente – solo 23 giorni dalla registrazione al mixaggio, meno di ogni altro album da Ten. Con i suoi 37 minuti, è anche il loro album più breve di sempre e “The Fixer” è la cosa più orecchiabile che abbiano fatto da anni.
“Sono rimasto deluso di alcuni nostri dischi” dice Gossard. “E’ passato del tempo da quando le persone dicevano ‘Devo comprare questi nuovi Pearl Jam.’ Ma penso che questo disco sia ciò che avremmo potuto fare con gli ultimi cinque dischi nel senso di occuparci di nuovo delle radici del perché questa band funziona. E se non piace a nessuno, ne sarò scioccato. Perché io so che è buono”.
Una volta, Gossard era testardo come il resto della band. Ora che sono tutti (tranne Ament) padri, si sono sistemati in una sorta di realpolitik di mezza-età. “Essere ostinati, conservando la propria essenza nella buona e nella cattiva sorte – è una cosa importante” dice Gossard. “Ma passerai un sacco di tempo a combattere per un miglio di territorio invece di aprire te stesso a quei grandi viaggi sulla luna”.
Gli chiedo se la band rimpiange mai di essere così intransigente, se forse si sono persi qualcosa. “Qualche volta” dice “mi guardo indietro e penso ‘Avrei potuto essere molto più sveglio, più utile. Fanculo, avrei potuto divertirmi molto di più'”. Qualche minuto dopo, arriva Vivian trotterellando – il sonnellino non ha avuto successo. Accarezza Basie sulla testa e sale in braccio a Gossard, con i suoi riccioli biondi. Le dico che mi piace il suo vestito con le coccinelle rosa.
“Grazie” dice lei. “L’ho preso da Target.”
Gossard quasi cade dalla sedia. “Giuro che non le ho detto io di dirlo”.
__________________
“Vogliamo uscire in barca?” chiede Vedder. La barca non è quello che pensate. E’ una barca a motore, lunga circa dieci piedi, celeste, con sedili a panca come una Chevy del ’57. Vedder l’ha trovata sul lato della strada un paio d’anni fa e se l’è portata a casa; l’unico miglioramento che ha apportato è stato un motore nuovo. “2.500 dollari” dice. “Come nuova”.
Mette in una sacca del ghiaccio e qualche Corona e siamo pronti per il mare. Andando in crociera nella baia, Vedder indica le cose che vediamo – il suo primo appartamento a Seattle, la Penisola Olimpica, Mount Rainier. “Prairie Wind” di Neil Young suona a tutto volume negli altoparlanti. Si avvicina alla costa della piccola Blake Island, si toglie le scarpe, e si piazza sulla spiaggia. Di questi tempi, quando la maggior parte delle persone pensa a Vedder – se ci pensano – lo considerano un accigliato attivista politico che ha passato gli ultimi otto anni (e due album) ad informare il pubblico che George W. Bush non era un buon presidente. E’ facile dimenticare che è stato forse, per un momento, la più grande rock star del mondo. Anche se non facessero più nessun disco, i Pearl Jam riempirebbero ancora le arene per molte serate. Così, ad un certo punto…qual è il punto? Le persone a cui piacciono i Pearl Jam continueranno ad ascoltarli; coloro a cui non piacciono, non lo faranno. Perché farsi tutti questi problemi? Vedder beve un sorso, riflette per un minuto.
“C’è stato un periodo, per alcuni anni, in cui incontravo le persone e loro mi dicevano ‘Allora ragazzi, cosa state preparando?’ E noi avevamo appena fatto, ad esempio, Riot Act – abbiamo fatto un paio di buoni dischi. Era come se loro pensassero che eravamo una band durata pochi anni.”
Come dire “Mi ricordo di voi ragazzi – 1992, giusto?”
“Esattamente. E io penso che se fossimo una band di nicchia, allora adesso avremmo la nostra piccola cosa e andrebbe bene. Ma noi siamo una cosa più grande. Io penso che queste canzoni meritino di essere ascoltate. E non è che le radio siano piene di grandissima musica. Cosa – se non lo facciamo noi, ci penserà American Idol? Molto di quello che stiamo facendo adesso è rivolto a far avvicinare nuove schiere di ragazzi, e non suonare sempre e solo per la stessa vecchia gente”.
Perché altrimenti sareste i Foghat alla fiera dello stato.
“Giusto. Ed è una grande cosa anche quella, perché sono i Foghat, e siamo alla fiera dello stato, e stiamo aspettando ‘Slow Ride,’ e allora è, ‘Baby, metti giù il tuo chili cheese dog, c’è “Slow Ride”!’ Io non ho mai voluto che fosse ‘Baby, metti giù il tuo chili cheese dog, c’è “Jeremy”.'”
Due anni fa, Vedder ha registrato il suo primo solo album, la colonna sonora folk, acustica per Into The Wild. Diretto dal suo amico Sean Penn, il film narra la storia di Christopher McCandless, un ostinato 22enne che, stanco delle malriposte preoccupazioni per la società moderna, decide di mollare il gioco. Suona familiare?
“Se tu disegnassi un grafico di tutto quello che è successo all’interno di quel ragazzo e poi facessi lo stesso per me, potresti metterli su un videoproiettore e le nostre diapositive si sovrapporrebbero perfettamente”.
McCandless, ovviamente (spoiler alert), ha superato il limite, ignorando tutto ciò che di buono c’era intorno a lui e uccidendosi letteralmente per dimostrare il suo punto di vista. Avrebbe potuto essere un martire, ma per lo più sembra solo un pazzo – un ragazzo ben intenzionato che combatte battaglie inutili. Chiedo a Vedder se se ne può trarre una lezione. “Noi proviamo ancora quell’impulso e siamo uno dei migliori gruppi rock [in circolazione]” dice. “Perciò perdonateci se facciamo qualcosa per bilanciare quel sabotaggio iniziale”. Fa una pausa. “Stiamo cercando di fare quello che ha fatto lui, ma senza morire”.
Inizia a fare freddo, così torniamo indietro. Sulla veranda, qualcuno (la moglie di Vedder? il suo publicist?) ha lasciato un piccolo pacco sopravvivenza: pesche, una scatola di Stoned Wheat Thins (crackers), e più sorprendentemente, una ciotola di ciliegie. “Ma cos’è, la fata ciliegia?” chiede Vedder con finto orrore. “Non possiamo fare un campeggio da uomini con delle fottute ciliegie in giro”. Ci scambiamo delle storie di escursioni e baseball e altre cose da campeggio maschile. Poi Vedder inizia a parlare del suo nuovo hobby: il lancio dell’ascia. Tira fuori il suo iPhone e scorre le fotografie di un bersaglio che lui e Laird Hamilton hanno costruito alle Hawaii. Una di queste mostra Vedder che brandisce una motosega lunga quattro piedi; in un’altra, una grossa ascia a doppia lama.
Mi mostra un sorriso di cospirazione. “Vuoi provare?”
Prendiamo caschi da baseball e Corona dal garage e andiamo nel retro. Le regole sono semplici: da zero a cinque punti per lancio a seconda di quanto vai vicino al centro del bersaglio; vince chi arriva prima a 21. E’ un po’ come giocare a freccette – però con le asce.
“Ti piace Bruce?” chiede Vedder, mettendo The River in uno stereo portatile. Passa a raccontare una storia su Springsteen, completa di un’impeccabile imitazione del Boss. Ben presto ci ritroviamo a parlare di eroi, poi di padri, e per tutto il tempo continua a scomparire nel garage e a venirne fuori con altra birra. Alla fine sono colpito da un pensiero surreale: Eddie Vedder è ubriaco, ed io sono ubriaco, e stiamo tirando asce ad un tronco d’albero nel buio. Bottiglie vuote sparpagliate a terra; Vedder è al suo secondo pacchetto di sigarette. “Facciamo un po’ di stretching da settimo inning” suggerisce. Camminiamo verso la parte occidentale del lotto, ammirando lo stretto e le isole e le montagne sull’altro lato. Il sole della tarda serata che brilla sull’acqua scura è di un rosso intenso. Vedder lancia una palla da tennis a Hank, poi beve un sorso di birra. “Non capisco perché qualcuno dovrebbe voler vivere rivolto ad est”.
Sono passate da poco le dieci. Jill probabilmente ha messo a letto le bambine e si sta chiedendo dove sia lui – ma lo conosce, e ovviamente ha iniziato a lanciare le asce. Spegnerà lo stereo portatile, getterà i vuoti nel bidone del riciclo, forse fumerà un’ultima sigaretta. Poi risalirà la collina, darà il bacio della buonanotte alle bambine, e crollerà nel letto, confortato dalla consapevolezza che, oggi, ha fatto la sua parte.
Ai vecchi tempi, Cameron Crowe descriveva Vedder come “una ferita aperta”. Prima, sull’isola, gli ho chiesto se pensava di essere guarito. Lui ha aspirato una lunga, teatrale boccata dalla sigaretta. “Sì, quella ferita non brucia più. Il trucco sta nell’imparare a trarne vantaggio. Non sono d’accordo con chiunque pensi che si debba rimanere squarciati per fare della grande arte. La memoria è sufficiente”.
E poi Eddie Vedder, l’oscuro, pensieroso sciamano della disillusione e della sofferenza, ride tra sé. “Il dolore” dice. “E’ semplicemente troppo doloroso”.