Da Chicago Tribune
Traduzione a cura di As_It_Seems
I Pearl Jam celebrano quest’anno il loro 20° anniversario in grande stile: un documentario diretto da Cameron Crowe; le ristampe di “Vs.” e “Vitalogy”, i loro album del 1993 e ’94 ed un prossimo festival in una località non ancora annunciata.
Inoltre, la band è nel mezzo della registrazione di un nuovo album in studio ed alcuni membri sono impegnatissimi in progetti paralleli – uno di questi vede sorprendentemente protagonista un ukulele. Appartiene al cantante Eddie Vedder, il cui album solista “Ukulele Songs” uscirà il 31 maggio. Un tour solista lo porterà al Chicago Theatre il 28-29 giugno.
“Ho scritto e collezionato canzoni con l’ukulele per almeno 10 anni, così era arrivato il momento di liberare l’appartamento e fare spazio a nuovi inquilini,” dice Vedder. “Devo fare spazio per il disco suonato con il fagotto.”
E’ un periodo pieno di impegni per una band che ha segnato l’era del rock alternativo con testi introspettivi e chitarre pesanti (chiamateli “grunge” se dovete), per poi quasi implodere dopo una dura presa di posizione contro i costi eccessivi dei servizi di Ticketmaster nel 1994. Negli ultimi anni, con il crollo delle vendite dei dischi e l’impennata dei prezzi dei biglietti dei concerti, la band si è lasciata alle spalle i rapporti con le major in favore di pubblicazioni indipendenti con la loro etichetta Monkeywrench Records, continuando ad attrarre una quantità di pubblico che riempie le arene in tutto il mondo.
In un’intervista, Vedder ha parlato del suo amore per il meno rock ‘n’ roll degli strumenti e di come i Pearl Jam stiano navigando nel nuovo panorama di un’industria musicale economicamente in difficoltà.
Q: Come hai iniziato a suonare l’ukulele?
A: E’ stato circa 13, 14 anni fa. Mi trovavo in una minuscola serie di negozi sgangherati in una delle isole più estreme delle Hawaii insieme al surfista Kelly Slater (Vedder stesso è un devoto del surf). Sono andato a comprare della birra nel negozio di liquori mentre Kelly comprava il pesce nel negozio di alimentari. Ho fatto prima io, così per aspettarlo mi sono messo a sedere su un paio di casse di birra, quando ho visto questo ukulele nella vetrina di un negozio. Era un bel Kamaka Tenor. Non era un giocattolo per bambini. Sono entrato a mani vuote e sono uscito cinque minuti dopo con un ukulele dal suono fantastico, e dopo altri cinque minuti avevo già scritto un ritornello e una strofa. Ero a metà della scrittura del bridge quando sono passate alcune persone che mi hanno lanciato delle monete nella custodia aperta. Avevo guadagnato $1.50 suonando l’ukulele che possedevo da sette minuti. Ho pensato, “Hmmm, questo strumento ha delle potenzialità.”
Q: L’ukulele ha cambiato il modo in cui scrivi le canzoni?
A: Ho imparato così tanto sulla musica suonando questa piccola macchina in miniatura per la scrittura delle canzoni, specialmente per quanto riguarda la melodia. Il motto è: meno corde più melodia. Sono riuscito ad applicarlo a qualsiasi cosa cercassi di scrivere. E’ diventato parte del processo di scrittura per me, la conoscenza che ho acquisito dal sentire le melodie che venivano fuori, per poi applicarle alla chitarra o alla voce. Ho iniziato a suonare l’ukulele nello stesso periodo in cui avevo molte conversazioni con Johnny Ramone, delle intense lezioni mentre rimanevamo alzati fino a tardi ascoltando la musica con cui lui era cresciuto e imparando cosa sia una grande canzone e cosa renda grande una canzone. Facevamo sempre elenchi e svisceravamo le canzoni, come ad esempio qual è la canzone migliore dei Cheap Trick: “No Surrender” o “Dream Police”? A volte le risposte erano sorprendenti. Si trattava di un’interessante dicotomia tra frequentare il padrino del punk rock e iniziare a suonare l’ukulele. Le due cose si sono incontrate.
Q: “Ukulele Songs” esce per la Monkeywrench, l’etichetta dei Pearl Jam, così come è stato per l’ultimo album della band (“Backspacer” nel 2009). Non farete più uscire la vostra musica con etichette esterne?
A: Una cosa che si potrebbe suggerire ad una giovane band è di non legarsi con nessun tipo di contratto a lungo termine perché ogni due mesi cambia tutto: il modo in cui le persone accedono alla musica e come la ascoltano, il modo in cui viene distribuita. Non posso dire cosa ci riserva il futuro. Bisogna saper crescere e muoversi insieme a quell’organismo che è l’industria musicale. Bisogna essere flessibili. La chiave è mantenere la proprietà delle tue cose e poter così imporre, sulla base del presente, quello che è il modo più efficace per proteggere te stesso e ciò che hai creato. Inoltre non vuoi rimanere bloccato in una situazione in cui una major detiene dei diritti sui tuoi tour e sul merchandise.
Q: Mi piace il fatto che nelle note di copertina di “Ukulele Songs” ringrazi la tua macchina da scrivere Torpedo che ha 50 anni.
A: Sì, mi piacciono i caratteri – il font German. Ho avuto relazioni con tante macchine da scrivere; su una di queste c’è ancora un’etichetta adesiva che dice “$8”. Adoro usarle per lavorare. Non so aggiustare un computer o una macchina, ma posso riparare una macchina da scrivere. Mi piacciono perché puoi usarle per scrivere di notte, a seconda di quanto alcol hai assunto, e il mattino dopo riesci ancora a capire quello che hai scritto. A volte tenevo sul tavolo tre macchine da scrivere, e portavo avanti tre diversi pensieri. Con i computer crei cartelle, file – non sono pratico di queste cose. Io ho pile di carta inquinata di parole e paragrafi. Trovo che sia un arnese che fa per me. E fortifica le mani per suonare la chitarra.
Q: Avremo nuova musica dei Pearl Jam quest’anno?
A: Abbiamo appena superato le fasi embrionali della scrittura dei pezzi per il prossimo album, e sembra che la cosa stia andando velocemente. Ma non so proprio se faremo uscire qualcosa quest’anno, perché stiamo facendo tutte le cose che riguardano la retrospettiva. Stiamo pienamente dando supporto a questa cosa ma non è questo il carburante che ci alimenta. Il modo in cui scriviamo come gruppo è che tutti portiamo dei pezzi e inevitabilmente in passato ci voleva un sacco di tempo per fare bene le cose. Ora riesco ad entrare nelle cose in maniera immediata. Se la band ha un pezzo di musica senza il testo, ora deve essere un knockout alla prima ripresa. I pezzi che vanno avanti per 15 round diventano più difficili da apprezzare, perché quando arrivi alla fine ti ricordi solo della battaglia che hai dovuto fare. Se riesci ad entrarci subito, catturi qualcosa in quei primi 15 minuti. Questo è il metodo che sembra funzionare meglio per noi.
Q: Eppure una volta hai detto che non credevi nella musica creata senza dolore e follia.
A: (Ride) Oh, deve essere una cosa vintage. Non ricordo nemmeno quando l’ho detta.
Q: Intorno al 1994. Sulle montagne fuori Denver durante il famigerato tour del boicottaggio a Ticketmaster.
A: Wow! Ad un certo punto ho smesso di crederci. Credimi, quando l’ho detto lo pensavo veramente. Forse era un modo per convalidare, accettare — ovviamente stavo sopportando miriadi di problemi – era un modo per utilizzare quel tipo di sensazioni. Ad un certo punto ti rendi conto che deve esserci un modo migliore. Credo che l’idea di mettere te stesso in quella condizione e pensare che tutto ciò legittimi la tua arte, sentirsi al limite del non essere nemmeno su questo pianeta, sia semplicemente distruttivo. Si può essere creativi anche senza essere in quella condizione. Bonnie Raitt dice “Posso ancora scrivere canzoni blues perché mi ricordo tutto”. Ci sono persone che abbandonano il nostro gruppo. Abbiamo visto la fragilità di tutto ciò a Roskilde (il festival danese del 2001 con i Pearl Jam headliner nel quale morirono nove persone). Ad un certo punto, ti accorgi che hai fatto tanta strada da quello che hai passato quando eri adolescente. Ad un certo punto ti sei guadagnato il diritto di essere felice. E’ una sfida per tutti noi. Riesci ad essere felice per una giornata intera? Puoi esserlo per due giorni consecutivi? Avere una casa e una macchina che si mette in moto, e tutte quelle cose che mi sento fortunato ad avere; ho sperimentato anche il lato opposto di tutto ciò. Ogni giorno accadono cose che potenzialmente potrebbero farti sentire davvero sconvolto. Allora cerchi di esorcizzare quell’emozione, ci scrivi sopra una canzone, la elabori, ma poi torni a vivere la tua vita. Oggi sono anche un genitore (di due figlie di 6 e 2 anni), i bambini hanno il diritto di avere qualcuno che sia immancabilmente una forza solida nella loro vita. Non puoi startene romanticamente a bere fino all’alba e infilarti in qualche dilemma psicologico con lo scopo di creare una bella canzone. Non è giusto nei confronti dei figli.
Q: Cosa ci dici dei concerti del 20° anniversario?
A: Stiamo giusto cercando di mettere insieme un po’ di amici e di band con cui abbiamo suonato in passato per fare un paio di concerti negli States. Probabilmente verrà fuori tutto all’ultimo minuto. Non voglio che sembri niente di folle o chissà cosa. Dovrebbe essere solo una cosa semplice. ‘The Last Waltz’ (il concerto d’addio dei The Band del 1976) è fantastico, una delle cose migliori in assoluto, ma ha avuto quell’impatto perché era l’ultimo concerto. Per noi sarà come ‘The Last Waltz,’ tranne per il fatto che faremo un altro concerto la settimana successiva (ride).
Q: Avete ripubblicato i primi tre album dei Pearl Jam negli ultimi due anni. Riesci ancora a sentirti in relazione con il ragazzo che ha scritto quelle canzoni? In qualche modo sembra che tu ti sia lasciato alle spalle una parte di quel ragazzo.
A: Durante il Vote for Change tour (nel 2004) ho fatto una lunga chiacchierata su una terrazza con Bruce Springsteen. E si può sintetizzare così: il ragazzo che eri una volta, è ancora seduto in macchina con te. Sarà sempre nella tua macchina. Però non farlo guidare. Potrebbe gridarti quale direzione prendere. Ma qualsiasi cosa tu faccia, non lasciare mai che prenda il volante.
Q: Le persone considerano ancora i Pearl Jam come un esempio, un parafulmine, per l’aspetto economico dei concerti perché avete supportato fortemente il discorso delle tariffe negli anni ‘90. Ed ora i vostri concerti costano $58 e $78 con $15 di costi aggiuntivi, e la gente mi scrive email lamentandosi che avete perso di vista quello che eravate. Vi vorrebbero come i Fugazi che fanno pagare $5 per un concerto. Come rispondi a questo tipo di aspettative?
A: Penso che vada considerato il punto in cui siamo oggi come gruppo e il modo in cui ci guadagniamo da vivere, non vendendo più dischi – questo è probabilmente l’aspetto più importante del perché i biglietti sono arrivati al punto in cui li considero costosi. Quello che posso fare come parte di un gruppo o per conto mio, è cercare di dare valore al prezzo del biglietto, qualsiasi esso sia. E questo è il momento in cui umilmente cerchi di dire che anche la longevità diventa qualcosa da rispettare a questo punto. E’ complicato. L’altra cosa da considerare è questa: qual è il motivo per cui la gente vende questi biglietti (nel mercato secondario) dopo che li abbiamo venduti noi? E’ una cosa a cui pensiamo. Il motivo principale della risposta è che il tour è il momento in cui unisci tutti i punti e fai il margine per non andare in rosso. Le persone possono polemizzare e chiamarti in certi modi e dire che questo non corrisponde a quello che era in passato, ma si spera che la gente si renda conto di come sono cambiate le cose nell’industria musicale. E per certi gruppi che volevano tenere bassi i prezzi dei biglietti e delle T-shirt e forse anche il costo dei loro dischi e avere cura degli acquirenti, dal momento che gli acquirenti non hanno bisogno di comprare i dischi (procurandoseli gratis in Internet), loro hanno tenuto fede alla loro parte dell’accordo? Questa è una critica per il nostro pubblico e odio doverla fare. Probabilmente dovrei rinunciare alla parte più grande del nostro pubblico dicendo queste cose. Ma per la maggior parte degli artisti, le vendite dei dischi non bastano più a pagare i conti.
Q: Lo trovi frustrante?
A: La cosa ha riguardato un’intera generazione perciò non si può tornare indietro. Ad un certo punto, credimi, a questo gruppo piace riunirsi e parlare di musica, canzoni, concerti, altre band. Io e Jeff (Ament, il bassista dei Pearl Jam) ci entusiasmiamo a parlare di come fare l’artwork dei dischi o a lavorare sui disegni delle T-shirt. La cosa meno entusiasmante per noi è parlare degli aspetti finanziari; è come andare dal dentista per noi. Ma almeno cerchiamo di farlo in modo creativo e di metterci il nostro marchio. Posso solo pensare che le cose che creiamo valgano quanto costano.
Q: Voi siete stati un modello per il modo in cui avete gestito la vostra carriera come band e come business, perciò probabilmente venite analizzati più di altri.
A: Questo lo comprendiamo. Ricordo che nel 1994 gli Eagles facevano pagare più di $100 a biglietto. Dicevano ‘Noi non siamo i Pearl Jam.’ Parliamo di un tempo in cui ancora si vendevano i dischi e gli Eagles avevano venduto quanto nessun’altro al mondo. E 20 anni dopo continuiamo a far pagare meno di loro (ride).