Five Against the World
Rolling Stone | 28 Ottobre 1993
By Cameron Crowe
Traduzione a cura di Angpo
I Pearl Jam emergono dallo stordimento del successo con un nuovo album pieno di rabbia e spirito combattivo.
Ci sono due Eddie Vedder. Uno è tranquillo, timido, si sente appena quando parla. Ama ed è amato. L’altro è torturato, un amaro realista, un uomo capace di indicare l’ingiustizia e che porta la guerra sul fronte interno, dentro di sé. In un caldo e ventoso giorno di fine primavera a San Rafael, in California, è facile capire quale Eddie Vedder sta tirando a canestri fuori dal Site, lo studio di registrazione dove i Pearl Jam stanno completando il loro secondo album. È l’Eddie Vedder torturato, quello con il solco profondo tra le sopraciglia.
“Tocca a te” dice Jeff Ament, il bassista del gruppo. Fa rimbalzare la palla verso Eddie, che prende un tiro in sospensione da lontano. La palla scheggia l’anello e rotola via. Quando Ament recupera la palla, Vedder è già scomparso nello studio. La sua mente è rivolta ad una nuova canzone “Rearviewmirror”. Questo è l’ultimo giorno di registrazione al Site ed il destino della canzone è in bilico. E’ una canzone sul suicidio… ma prende troppo.
La scelta dello studio era sembrata perfetta a febbraio, quando il gruppo decise di registrare qui il nuovo disco. L’idilliaco complesso, sulle colline fuori da San Francisco, offriva privacy e concentrazione. Keith Richards aveva registrato qui; il suo biglietto di ringraziamento allo studio è incorniciato ed appeso ad una parete del soggiorno. E’ una campagna meravigliosa, dove gli abitanti guardano al verde orizzonte dicendo cose come “Gorge Lucas possiede tutto quello che c’è sulla sinistra.” Qui è dove i Pearl Jam avrebbero affrontato la sfida di dare un seguito a Ten, uno degli album di debutto di maggior successo nella storia del rock. C’era solo un problema.
“Odio stare qui” dice Vedder, in piedi nella fredda stanza blu dove sta per cantare. “È stata dura.” Appoggia il foglio col testo su un leggio tra due chitarre verdi turchesi. “Come puoi fare un disco rock qui? Forse i vecchi rockers, forse amavano questo. Forse avevano bisogno di rilassarsi e di essere comodi. Forse avevano bisogno di fare musica per le cene.” Frustrato, Eddie scuote la testa. Tira la sua maglietta nera, come se fosse scomodo nella sua stessa pelle. Trascorre un lungo momento. Finalmente il produttore Brendan O’Brien parla nell’interfono. “Pronto a fare un tentativo?”
”Certo” dice tranquillamente Vedder, voltandosi per cantare. Si mette le cuffie e per molto tempo l’unico suono che si sente è quello del suo piede che batte ritmicamente. “I took a drive today,” canta. “Time to emancipate / I guess it was the beatings / Made me wise”. Si tiene una mano sulla testa. “But I’m not about to give thanks or apologize.” Ora, ascoltando attentamente, sposta il peso da un piede all’altro. Ruggisce e comincia a sputare sul pavimento. “Divided by fear” più forte ora. “Forced to endure / What I could not forgive.” Sta urlando ora, con gli occhi chiusi. “Saw things…” La stanza è riempita dalla sua rabbia. “Clearer… once you were in my… ” Tre metri più lontano, un piatto della batteria appoggiato al muro comincia ad oscillare. “Rearview… mirrorrr!”
In un’altra parte dell’edificio, Ament, l’artista del gruppo, si prepara per un incontro per parlare della copertina del nuovo album. Per mesi, la regola non scritta è stata di non parlarne. Di pensare solo a fare il disco. Di dimenticarsi della pressione che veniva dall’altra parte della collina. Ma ora una decisione deve essere presa, ed il gruppo lentamente si riunisce nella cucina per dare un’occhiata alle idee di Ament.
“Stavo pensando a delle finestre” dice Ament nervosamente, passando le sue idee agli altri membri. Il distintivo stile di Ament adorna tutte le t-shirt e i dischi del gruppo. Sul tavolo, di fronte a loro c’è una complessa collezione dei suoi schizzi e delle sue foto.
“Bello” dice piano Vedder, appena tornato dallo studio e ancora scosso dalle emozioni. Stone Gossard e Mike McCready, i chitarristi del gruppo, studiano le idee con entusiasmo crescente. Incoraggiato, Ament continua. Gli piace l’idea della contraddizione. Di immagini conflittuali. I cinque membri lavorano sul concetto fino a che non sono soddisfatti. C’è la calma che segue un’idea vincente.
“Così pensiamo a Daughter come primo singolo?” dice casualmente il batterista Dave Abbruzzese. Improvvisamente tutto l’ossigeno sparisce dalla stanza. Gli alti quattro membri assalgono Abbruzzese. Quale singolo? Una riunione alla volta! Che cosa intendi con singolo? Abbruzzese alza le spalle. Forse è ancora un po’ troppo presto per parlare di quello di cui bisogna tacere. Presto l’attenzione ritorna sulla copertina del disco. Abbruzzese suggerisce di aggiungere una finestra incatenata di un appartamento di New York. L’idea viene accettata istantaneamente e la riunione finisce su una nota esuberante. Il gruppo scompare per giocare a softball mentre Brendan O’Brien finisce di mixare Rearviewmirror.
Abbruzzese rimane indietro, a curarsi un polso dolorante. (A volte soffre della sindrome del tunnel carpale, che gli causa insensibilità in tre dita.) “Quando ero più giovane e sentivo di un gruppo che aveva venduto milioni di copie, pensavo che il gruppo si sarebbe riunito e avrebbe saltato su e giù per almeno un minuto,” dice con una aperta risata del Texas orientale, “e che tutti dicessero ‘Wow, non posso crederci’. Ma in questo gruppo non succede così. Io sì, vado fuori di testa e salto su e giù da solo.” Per Abbruzzese, coautore della canzone di apertura del disco, Go, è qualche volta difficile guardare il modo in cui i suoi compagni affrontano il successo. “C’è un sacco di intensità sulle decisioni,” dice allegramente, “E penso che sia grande. Ma una volta ogni tanto, vorrei che si lasciassero un po’ andare, che prendessero una decisione sbagliata!” Guarda la stessa foresta verde che ha fatto arrabbiare Vedder. “Guarda questo posto. È il paradiso.”
Alcune settimane dopo, seduto in un caffè nel centro di Seattle, Stone Gossard analizza la natura infiammabile del gruppo. “Penso che ci stiamo comportando bene,” dice col ritmo affrettato di un atleta. “Penso che abbiamo fatto un grande disco. Nessuno si sta comperando Limousine e pensa che sia la cosa migliore sulla terra. C’è un bilanciamento naturale nel gruppo dove tutti abbiamo bisogno degli altri. Tutti vedono le cose dalla propria angolazione, e tutte queste visioni sono gli archetipi delle cose di cui hai bisogno per pararti il culo. E’ quello che per me fa un gruppo.”
E ha sentito delle critiche che circondano il successo dei Pearl Jam. “Se qualcuno vuole dirci: ‘eravate il mio gruppo preferito, ma avete avuto troppo successo’ — per me il problema nell’avere troppo successo non è che diventando troppo grandi smetti improvvisamente di fare buona musica,” dice Gossard. “Il problema è che quando diventi troppo grande smetti di fare le cose che facevi di solito. Essere famosi non vuol dire che non puoi più andare nel tuo scantinato e scrivere una buona canzone. Penso che ci sia della gente là fuori capace di essere molto più grande.” Ride. “Molta più gente là fuori è capace di essere grande, solo che non si danno la possibilità di esserlo.”
All’inizio le canzoni del nuovo album uscivano a raffica. La prima settimana di registrazioni al Site aveva prodotto Rats, Blood, Go, ed una lenta, potente versione del loro pezzo favorito dal vivo, che non era mai stato registrato, Leash. Poi il gruppo si è scontrato con un muro. Vedder è scomparso a San Francisco, dormendo spesso nel suo van per conservare il suo spirito combattivo. Passeggiando, ha anche raccolto dell’edera velenosa. “Aveva bisogno di entrare in contatto con le sue canzoni,” dice Ament. “Siamo tornati in carreggiata in fretta.”
I Pearl Jam sono tutti nella loro presa di posizione, una personale dichiarazione dell’importanza della musica rispetto alla fama. Ma il peso della popolarità dei Pearl Jam è caduto quasi completamente sulle spalle di Vedder, che ha trascorso la maggior parte del suo periodo di riposo a porsi domande sugli effetti dell’essere un gruppo di così alto profilo. Vedder è anche finito, stranamente, in una rissa da bar per difendere il gruppo. (Con una voce alla Tom Waits, ci offre un frammento di una canzone non ancora registrata su quella rissa: “Mi sono fatto un occhio nero / Solo per mostrare come mi sentivo”) e una notte, mentre era seduto solo in una spiaggia deserta, ragionando della vita dopo la morte di un’amica, la chitarrista delle 7 Year Bitch, Stefanie Sargent, ha sentito delle strane voci provenire dalla collina dietro di lui. Stavano cantando Black, la fragile canzone che per Vedder è diventata il simbolo dell’eccessiva commercializzazione del gruppo. Ha combattuto per evitare che venisse suonata troppo, non ha voluto farne un video. Vedder è sbucato dai cespugli per chiedere al sorpreso gruppo di non cantare la canzone. Mesi dopo ricorda ancora i loro sguardi sorpresi e preoccupati mentre affrontavano l’autore pieno di rabbia della canzone. ”Ho avuto problemi ad andarmene,” dice ora Vedder con una risata. Ma come dice Ament, “La lotta è tutto, è quello che fa il nostro gruppo.”
“Facciamo Black” dice Gossard.
È tempo di prove a Seattle, nel giugno 1993. Più tardi, in estate, i Pearl Jam faranno un breve tour in Europa, aprendo i concerti degli U2 e di Neil Young, e il gruppo ha affittato il centrale Moore Theatre per provare. Semiseriamente Gossard chiede che le luci del palco, nel teatro deserto, vengano abbassate. Comincia a suonare i semplici accordi che aprono questa angosciata canzone su un amore passato. Quindi Vedder, con le mani in tasca, si lancia nel testo. Dà tutto se stesso ad un migliaio di sedie vuote. Quando la canzone è finita c’è un ronzio nell’aria. Il gruppo è chiaramente pieno di energia.
Rapidamente i Pearl Jam si lanciano in un nuovo riff di Gossard. Abbruzzese prova un po’ di schemi diversi, fino ad agganciarne uno con Ament. Quindi McCready aggiunge un assolo infuocato. Come lui stesso, il modo di suonare di McCready è tranquillamente espressivo, segnato da improvvise esplosioni. Ora si unisce anche Vedder, cantando un testo casuale (“When it comes to modern times / You’re standing in line”). La sua onnipresente valigia gialla, quella piena di diari, testi, maschere e cassette, è aperta e il contenuto è sparso per il palco. Sceglie frasi e pensieri mentre il gruppo suona dietro di lui. Prima che sia trascorso del tempo hanno messo assieme le versioni approssimative di due nuove canzoni. Al centro dei Pearl Jam c’è la relazione tra Gossard e Vedder. “Siamo delle persone molto diverse,” dice Gossard. Il cui affilato acume è così distante dalla compassata ironia di Vedder. “In molti modi siamo quasi polarizzati. Voglio dire, dì una qualunque cosa, e noi prenderemo posizioni opposte. Partiamo dagli opposti dello spettro in modo da poter sempre in qualche modo trovarci nel mezzo. Il mio obbiettivo, quello che voglio davvero raggiungere, è non aver bisogno di lui. Perché così tante persone che non lo capiscono veramente hanno bisogno di lui.”
Più tardi Vedder prende un boccale di birra al bar di fianco, il Nightlife, e si rilassa dopo le prove. Riflette sull’aver cantato Black per la prima volta dopo mesi. “Ci sono alcune canzoni che vengono dalle emozioni,” dice. “Non hanno nulla a che fare con la melodia, il tempo o persino il testo; hanno a che fare con le emozioni che ci sono dietro. Non puoi farle al 50%. Devi cantarle da un’emozione. Come Alive e Jeremy, e oggi Black. Queste canzoni mi distruggono.” Ament è seduto di fianco a lui. I due non sono usciti insieme dal Lollapalooza del 1992. Hanno il cameratismo degli amanti della musica. “La mia relazione col gruppo,” dice Vedder, “è cominciata come un innamoramento al telefono con Jeff.” Immediatamente i due cominciano a rivangare i primi giorni della storia dei Pearl Jam, i tempestosi giorni di solo due anni e mezzo fa.
Tutto è cominciato con un nastro etichettato “Stone Gossard Demos 91.” Le riviste degli dei della chitarra l’hanno scoperto solo ora, ma la maggior parte delle canzoni dei Pearl Jam presero vita da un riff di Gossard. Una delle sue preferite era una canzone chiamata Dollar Short, una traccia incompleta a cui aveva cominciato a lavorare quando lui e il bassista Ament erano nei Mother Love Bone. I Love Bone erano un promettente gruppo hard-rock di Seattle, che avevano creato dopo lo scioglimento del loro gruppo precedente, i pionieri del grunge Green River. Quando il compositore/cantante dei Love Bone, Andrew Wood, morì di una tragica overdose di eroina nel 1990, Ament – il figlio di un barbiere del Montana – si ritirò, suonando un po’ con un gruppo chiamato The War Babies e ritornò al suo altro amore, le arti grafiche. Gossard – un nativo di Seattle figlio di un avvocato — non abbandonò la sua chitarra, passando dalle atmosfere leggere dei Love Bone ai groove affilati e duri. Una parte del nuovo progetto era Dollar Short. Gossard chiamò McCready, un esplosivo chitarrista che era stato così colpito dallo scioglimento del suo gruppo di Seattle, gli Shadow, da cominciare a trasformarsi letteralmente in un repubblicano. Si era tagliato i capelli, lavorava in una videoteca e stava leggendo un libro dell’ultraconservatore Barry Goldwater. “Stavo diventando un conservatore accanito,” dice McCready, “perché ero talmente depresso.” Gossard lo vide come la nuova arma segreta del gruppo che voleva costruire. “Qualunque cosa tu stia suonando,” dice Gossard, “Cready arriva ed accende la miccia.”
Mentre l’attenzione stava cominciando ad accumularsi attorno al Seattle Sound – i Nirvana stavano per esordire con una Major, la Subpop Records stava fiorendo – Gossard e McCready provavano nell’attico dei genitori di Gossard. Quella stanza era già stata la stanza dei Green River e dei Mother Love Bone. Quando si unì anche Ament, l’ispirazione colpì di nuovo. “Sapevo che avevamo un gruppo,” dice McCready, “quando cominciammo a suonare quella canzone, Dollar Short.” Dave Kusen si unì al gruppo dopo, suonando in Ten, ma lasciò rapidamente a causa di problemi famigliari. Fu sostituito da Abbruzzese, che suonava in un gruppo funk e conduceva una trasmissione alla radio, “Music We Like”, a Huston. All’inizio Abbruzzese non era certo di voler suonare a tempo pieno; ma dopo due concerti si tatuò il logo dei Pearl Jam disegnato da Ament su una spalla.
Oggi, ascoltare i demo di Gossard del ’91 non è molto diverso dall’ascoltare Ten senza le parti vocali — potente ma incompleto. Saltò fuori che il pezzo mancante era a San Diego. Originario di Evanston, Illinois, Vedder – meglio conosciuto nella scena musicale di San Diego come “colui che non dorme mai” – aveva portato l’etica lavorativa del Midwest nella comunità della spiaggia assolata. Lavorando di giorno in una stazione di servizio per finanziare la sua carriera come compositore e cantante, Vedder conobbe Jeck Irons, ex dei Red Hot Chili Peppers. Irosn gli diede i nastri di Gossard. I demo di Seattle contenevano cinque pezzi strumentali, ricorda Vedder, ma c’era qualcosa in una canzone, che aveva liberato cose che Vedder si era tenuto dentro di se per lungo tempo. Gli venne tutto in mente una mattina nella nebbia mentre stava facendo surf. Quella mattina, Dollar Short divenne una canzone chiamata Alive. Vedder corse a casa, nell’appartamento alla Mission Beach della sua ragazza, Beth Liebling. Lavorando su un blocchetto di Post-it gialli che aveva preso al lavoro, Vedder si registrò mentre cantava su tre dei pezzi strumentali. Queste tre canzoni insieme raccontano una storia, come ricorda ora Vedder, “basata su cose che erano successe e su altre che mi ero inventato.” La copertina della cassetta della “mini opera” era stata disegnata attentamente da Vedder, la grafica fotocopiata al lavoro, e il tutto intitolato Mamasan. Seduto nel suo appartamento a Seattle, Ament ascoltò il nastro tre volte e alzò il telefono. “Stone” disse “faresti meglio a venire qui.”
Quando arrivò a Seattle Vedder aveva già scritto Black. E tutto quello che aveva chiesto nelle sue precedenti, lunghe conversazioni telefoniche con Ament era di non perdere tempo. Voleva andare direttamente all’aeroporto alla sala prove e fare musica. Ed è quello che successe. La prima canzone che fecero insieme fu Alive. Entro una settimana erano un gruppo perfettamente funzionante. E le chiuse della creatività di Vedder erano spalancate. La maggior parte delle sue canzoni, da Why Go a Oceans, erano storie reali di persone che conosceva. Alcune contenevano degli indovinelli, messaggi privati a se stesso o ai suoi amici. Gli stessi testi stampati su Ten sono incompleti, ma è difficile negare il dolore nel consegnare frasi dolorose come “Daddy didn’t give attention / To the fact that mommy didn’t care.” “Non so da dove vengono tutte quelle canzoni,” dice Ament. “So poco della sua infanzia. So che amava Quadrophenia degli Who. Immagino di non conoscere molti dettagli.”
Alive segnò il livello per tutto quello che sarebbe seguito. La prima canzone di Ten fu anche la prima canzone che attirò l’attenzione sul gruppo. Era chiaramente uno successo creativo di Vedder, e l’iniziale video del gruppo clelebra una performance live catartica della canzone. In una recensione del Los Angeles Times, l’autore Chris William ha persino comparato la canzone a My Generation degli Who. Oggi Alive è un grido di raccolta per la Generazione X, ma stasera, seduto al Nightlite, Vedder rivela il significato reale della canzone. “Tutti ne parlano come se fosse un’affermazione della vita, e ne sono davvero felice,” dice con una risata rinfrancante. “È una grande interpretazione. Ma Alive è… è una tortura. Che è il motivo per cui è rovinata per me. Dovrei imparare a cantarla in un altro modo. Sarebbe più facile. È… è troppo.”
Vedder continua: ”La storia della canzone è di una madre che sta con un padre ed il padre muore. È una cosa intensa perché il figlio è uguale al padre. Il figlio cresce fino a diventare il padre, la persona che lei ha perso. Suo padre è morto e ora questa confusione, sua madre, il suo amore, come la ama lui, come lo ama lei? Infatti la madre, anche se ha sposato qualcun altro, non ha mai amato nessuno come il padre. Sai com’è, il primo amore. E lui muore. Come potrà mai riportarlo indietro? Ma il figlio. È uguale a lui. È soprannaturale. Così lei lo vuole. Il figlio ne è completamento inconsapevole. Non capisce che cazzo stia succedendo. Sta ancora crescendo. Sta ancora affrontando l’amore, sta ancora affrontando la morte del padre. Tutto quello che sa è che ‘Sono ancora vivo’, queste tre parole, sente tutto il peso.”
Il Jukebox suona Suspicious Minds di Elvis mentre Vedder Continua: “Ora il secondo verso dice ‘oh lei entra lentamente nella stanza del giovane… Ricordo solo… lo sguardo … lo sguardo…’ e non dico più nulla. E poiché sto dicendo ‘Lo sguardo, lo sguardo’ tutti pensano continui con ‘sul suo viso’. Ma non è il suo viso. Lo sguardo è tra le sue gambe. Cosa fai con questo? È da dove sei nato. Ma sono ancora vivo. Sono l’amante che è ancora vivo. E tutta la conversazione ‘Sei ancora vivo, lei dice’ e i suoi dubbi: ‘merito di esserlo? È questa la domanda?’ è perché lui è rovinato per sempre! Così non sa come affrontare la cosa. Così quello che fa è di andare in giro ad ammazzare della gente – questa è Once. Diventa un serial killer. E Footsteps, la canzone finale della trilogia, (la b-side inglese di Jeremy) è quando la condanna a morte viene eseguita. Questo è quello che succede. Il killer del Green River… e a San Diego c’era un altro assassino di prostitute. Mi sono rifatto a quello. Penso che accada più spesso di quanto pensiamo. E’ il modo moderno di affrontare una vita cattiva.” Quindi sorride e dice:“Sono felice di essere diventato un autore di canzoni”.
Seduto di fianco a Vedder, Ament ascolta come un fratello affascinato. Forse sta ricordando la prima impressione che Vedder gli fece quando arrivò a Seattle. Gli amici dei primi giorni su al nord ricordano un Vedder diverso da quello di oggi, un surfista disperatamente timido, un ragazzo con tanto cuore e poca ironia. Un amico lo chiamava persino Sant’Eddie. “Era veramente tranquillo e amichevole quando lo incontrammo per la prima volta,” dice Ament. Nei primi concerti del gruppo Vedder stava così sulle sue che quasi non alzava gli occhi. “E a un certo punto è cambiato.” Un primo momento di svolta ci fu sul palco in un club chiamato Harpo’s, a Victoria, British Columbia. Era il primo tour dei Pearl Jam lontani dal pubblico che li conosceva degli amici di Seattle. Ma questo pubblico canadese era molto più interessato a ubriacarsi. A metà concerto Vedder decise di sfidare il pubblico, per svegliarlo. Scardinò la base di 5 chili dell’asta del microfono e la fece volare sopra le loro teste, come un frisbee mortale. Il disco d’acciaio colpì il muro del bar.
Si svegliarono.
Vedder non sarebbe più stato lo stesso. Gossard dà il merito di questo all’influenza di Chris Cornell dei Soundgarden, che chiese a Vedder di cantare nel suo tributo ad Andy Wood. “Cornell si era trasformato lui stesso,” dice Gossard. “Ed Eddie guardò a lui come ad una guida per aiutarci in quel periodo.”
Vedder sviluppò presto una nuova attitudine sul palco. Cominciò ad arrampicarsi sulle impalcature del palco o sulle gallerie dei teatri dove suonava il gruppo, gettandosi tra le braccia di un pubblico spesso adorante. “Penso che la prima volta in cui mi preoccupai davvero fu in Texas,” ricorda McCready. “Eddie si arrampicò su questo traliccio, a circa 15 metri d’altezza. Nessuno sapeva chi fosse. E all’improvviso guardo in alto — qualcuno gli aveva puntato addosso un riflettore — e penso ‘Cazzo!’ Lui è lassù appeso a un traliccio. ‘Questo è pazzo, ma sono così esaltato anch’io.’”
“Tutta questa cosa si trasformò in un circo,” aggiunge Ament. “La gente non guardava i suoi occhi quando lo faceva. Penso che tutti stessero guardando il fottuto fenomeno da baraccone, sai. Quello che era abbastanza stupido da rischiare la pelle. Ma se guardavi i suoi occhi amico, c’era dell’intensità in quello che stava facendo. Era il suo modo di credere in se stesso. Stava dicendo:”Questo non è solo rock per me.”
Il gruppo ritornò da un tour europeo e registrò un’emozionante edizione di Unplugged. C’è stato un momento davvero galvanizzante, indimenticabile alla fine di Black. “We belong . . . together… together,” cantava Vedder. Era semplice, una persona seduta su uno sgabello, che tirava fuori il suo cuore, che affogava nelle emozioni, lì di fronte a te. Dopo l’Unplugged le lettere al Ten Club quasi raddoppiarono, molte erano su Black, e cominciavano in un modo agghiacciantemente simile: “Stavo pensando al suicidio, e poi ho sentito la vostra musica…”
Vedder rispose personalmente a molte delle lettere, spesso lasciando distrutto l’ufficio del gruppo. Ma c’era altro lavoro da fare. Quasi subito il gruppo tornò in Europa per suonare in alcuni dei grandi festival estivi, di fronte a folle di 30-50 mila persone. Era la prova del fuoco. “Tutto culminò in Danimarca,” dice Ament. “I danesi, penso, stavano giocando contro l’Italia nella coppa del mondo, così la città era impazzita. (Era contro la Germania agli europei ndt. ) Suonavano lì anche i Nirvana e anche loro stavano affrontando il loro successo. Suonammo di fronte a 70.000 persone. Eddie su buttò come al solito tra la folla, tornò indietro e la sicurezza non sapeva chi fosse. Cominciarono a picchiarlo. Metà del gruppo si buttò giù. Stavamo suonando Deep. Mi ricordo che ci fermammo, ed ero pronto a lanciarmi giù vedendo la rissa. Eddie e Eric (Johnson, il tour manager) erano completamento sballottati. E Mike era giù, e anche Dave.”
La sera precedente, a Stoccolma, spiega Vedder, il gruppo aveva fatto un concerto più lungo del solito. Un gruppo di americani era entrato negli spogliatoi e tra le altre cose, avevano rubato i diari e i testi di Vedder. Aveva intenzione di regalarli alla fine del tour, come già aveva fatto in precedenti visite europee (con delle note personalizzate con i resoconti scritti a mano di ogni concerto). Ma il furto pesò molto su di lui; avevano tradito la sua fiducia, un cattivo presagio. Per Vedder fu una metafora del crescente successo dei Pearl Jam. Il gruppo di cui una volta Ament aveva scritto: ”Aggiungete acqua e guardate i Pearl Jam crescere,” cresceva incontrollabile, ben oltre i piani in piccola scala per un debutto in piccola scala. “Ci fece pensare che forse suonare questi spettacoli enormi non era così importante come avevamo pensato che fosse,” dice Ament. “Facemmo le valige e ce ne andammo la mattina seguente.”
Seduti al Nightlite, Ament e Vedder ricordano la fine improvvisa di quel tour. Il gruppo aveva visto il proprio album di debutto senza pretese, Ten, vendere milioni di copie. Solo Billy Ray Cyrus li aveva tenuti lontani dal primo posto, lasciando fortunatamente almeno un obiettivo per gli anni seguenti. I Pearl Jam erano stati disegnati per una crescita lenta. Invece erano legati ad un missile. Il gruppo ebbe molti incontri: ”Dove mettiamo il limite?” – Il limite fu posto su Black. Eddie Vdder si rifiutò di trasformare la canzone in un vide. Non ascoltò i dirigenti che gli dicevano che la canzone era, come la mette giù Vedder, “Più grande di Jeremy, più grande di me o di te.” Vedder tenne duro, e il gruppo lo appoggiò.
“Alcune canzoni,” dice, “semplicemente non sono fatte per essere suonate tra il successo numero 2 ed il successo numero 3. Se cominci a fare queste cose le schiacci. Non è per questo che abbiamo scritto le canzoni. Non volevamo scrivere successi. Ma queste fragili canzoni vengono schiacciate del business. Non voglio farne parte. Non penso che il gruppo voglia farne parte.”
La questione si spostò presto sui video, e Ament descrive un recente incontro con Mark Eitzel del gruppo American Music Club. Ament e McCready suonarono con il gruppo a Seattle, ma dopo circa 30 secondi di conversazione, Eitzel sfruttò l’occasione per sfidare Ament sul video di Jeremy. “Mi è piaciuta la canzone,” disse ad Ament, coautore della canzone, “ma il video faceva schifo. Mi ha rovinato la visione della canzone.” Questo scambio colpì Ament. “Tra dieci anni,” dice a Vedder “non voglio che la gente ricordi le nostre canzoni come dei video.”
Vedder è d’accordo. Promette che il nuovo album uscirà prima di qualunque video. “Non ho neppure MTV (in USA è via cavo, ndt.)” dice scrollando le spalle. “Non so nemmeno perché ne parlo. La gente mi ferma per la strada e mi dice di questo gruppo, gli Stone Temple Pilots. Non so nemmeno chi siano. Mi sto comperando un panino e loro: ‘che succede con gli Stone Temple Pilots?’”.
”Non hai visto il video?” chiede Ament. “Devi averlo visto.”
“No” dice. “Non ho MTV.”
Ament racconta a Vedder del video di “Plush”, col cantante che si è appropriato incredibilmente dei manierismi di Vedder. Vedder l’ha già sentito dire. In effetti lo sente tutti i giorni. Dai fan, dagli amici, persino da un musicista francese che si complimenta con lui per la canzone e per i nuovi capelli corti e arancioni. (I capelli di Vedder sono ancora lunghi e castani.)
“Apparentemente, è qualcosa che anche il tizio sta subendo.” Suggerisce Vedder. “Dovrei provare simpatia? Trovati il tuo posto amico. Non penso di aver mai rubato il posto di qualcuno. Non ho rubato il posto di Andy Wood. Non ho rubato il posto di Kurt Cobain, anche se quello di Kurt sarebbe uno dei posti migliori che potrei mai occupare. Ma io e Beth facevamo parte della scena di San Diego. Sapevamo tutto quello che succedeva, ed era piccola abbastanza per conoscere tutto. Questi tizi vengono da là? Non li ho mai sentiti nominare.” Fine della discussione.
Per parecchie ore ancora Vedder e Ament continuano a ricordare lo strano stupore degli ultimi anni. Vedder dice ad Ament che non è più così facile, i concerti sono più duri ora. È più duro, dice, scaldarsi per cantare le canzoni come devono essere cantate. E anche se Vedder beve solo occasionalmente, ha cominciato a sorseggiare da una bottiglia di vino rosso sul palco. Quando la conversazione si sposta sull’ultimo Andrew Wood, Vedder diventa riflessivo. “Mi chiedo di Andy,” dice. “A volte posso capirlo. Non la parte della droga – non ho bisogno della droga per rendere tragica la mia vita – ma il fatto che le cose stessero andando così bene per lui. E non lo sapeva.” Vedder fa una pausa. “C’è una delle sue canzoni che sarei orgoglioso di cantare. Non ti dirò qual è. Ma c’era una canzone che mi ha sempre preso. Un giorno la canterò.” Vedder si scusa e va in bagno. Amentsscuote la testa. “È la prima volta che lo sento,” dice con un sorriso.
Sono le due di notte ora, una gelida notte di giugno. Ament e Vedder tremano all’angolo fuori dal Moore Theatre. Nessuno dei due sembra ansioso che la notte finisca. Giocando con le chiavi della macchina, continuano a parlare sotto l’insegna spenta. Stanotte a Seattle è la notte dei diplomi. Gli ultimi avventori e le ultime coppie dei balli li sfiorano sulla strada, nessuno riconosce i due musicisti, tranne un diplomato alticcio in smoking rosso. Per alcuni minuti li osserva da vicino, ripetendo a se stesso una cantilena da ubriaco. “Eddie, Eddie, Eddie, Eddie, Eddie,” dice e poi se ne va.
“Non so se è la brirra o la compagnia o che cosa,” dice Ament, “ma era parecchio che non stavo così bene.”
“Anch’io,” dice Vedder. “È cambiato così tanto.” ”Ci sarà un momento in cui tutto tornerà come prima,” dice Ament. “Questo momento passerà. Torneremo fuori a suonare. Torneremo ad essere cinque persone che vogliono lavorare insieme.”
Vedder affonda le mani in tasca. “Mi piacerebbe davvero,” dice. I due compagni stanno nell’oscurità per altri dieci minuti parlando di Oliver Stone, delle Iene (il film ndt.), dell’atteggiamento del gruppo riguardo al sessismo in tour, dell’orgoglio delle nuove canzoni, del piano definitivo di fuga di Vedder. Può sempre vendere cassette dalla sua casa per un dollaro e mezzo. Finalmente il freddo ha la meglio su di loro.
“Ci vediamo domani,” dice Ament, dirigendosi al parcheggio dall’altra parte della strada.
“Aspetta,” dice Vedder, “vengo con te.”
“Fottiti,” grida un gruppo di fan vicini al palco. C’è poca poesia nel pubblico italiano. 40 mila riempiono oggi lo stadio romano, ma non sono interessati a vedere molto altro che il gruppo che appare sul biglietto, gli U2.
“Fottermi?” ripete Vedder dal bordo del palco. “Vi dico io cosa, voi mi fottete e poi Bono fotterà voi.”
Il gruppo si lancia in Even Flow e tenta di creare un po’ di attenzione, buona o cattiva, qualunque cosa. La lotta per farsi accettare finisce in pareggio. Questo è uno dei pochi paesi al mondo che non è ancora caduto vittima dell’incantesimo dei Pearl Jam, e il gruppo sente il gelo che ha circondato i loro primi due concerti di apertura per lo Zooropa Tour degli U2. Sarebbe facile ascrivere questo alla pigrizia del pubblico, ma appena i Pearl Jam lasciano il palco, il DJ dello Zooropa fa partire Another One Bites the Dust dei Queen e l’intero stadio tuona, istantaneamente. Negli spogliatoi il gruppo passeggia tetramente prendendo qualcosa da mangiare. Abbruzzese ha già un piano per domani: “Abbasserò la batteria, così potrò vedere il pubblico. Entrerò in contatto con quella gente.”
In pochi minuti Vedder emerge dal palco e trova qualche fan americano. “Vorrei che avessimo suonato in un club qui,” gli dice firmando alcune magliette. Lui e Beth Liebling si dirigono al mixer per guardare gli U2 con il resto del gruppo. Non passa molto prima che un gruppo di super e semi-supermodelle si posizionino dietro di lui, schiamazzando e gridando, facendo foto e cercando di attirare la sua attenzione. Vedder continua a seguire lo spettacolo. Finalmente una delle modelle riesce a presentarsi. Parla in modo pressante con lui, stringendogli la mano. Vedder annuisce educatamente, e si rigira verso il concerto. Totale tempo investito: 3 secondi. Più tardi il gruppo torna in hotel col pullman del tour. Bloccato nel traffico, un gruppo di fan italiani scopre il bus e cerca di guardare dentro. La loro espressione è inconfondibile. “Oh” sembrano dire, “è l’altro gruppo.” Ma continuano a guardare, come se osservassero una acquario. “Vorrei che avessimo suonato in un club qui,” dice Vedder a nessuno in particolare.
La conversazione si sposta su Neil Young e il concerto con lui che si terrà a Dublino. Il gruppo parla della possibilità di suonare con Young Rockin’ in the Free World. Ma anche questo argomento si esaurisce presto e le facce romane continuano a osservare all’interno dai finestrini del bus bloccato. Non è piacevole. È come se le trasmissioni dello Zoo Tv fossero terminate e i Pearl Jam fossero il segnale di prova.
Fino ad un mese prima dell’uscita, l’album si doveva chiamare “Five Against One.” Il nome saltò fuori in un incontro in un hotel di Roma mentre il gruppo stava approvando il mixaggio finale del disco. Ci sono già richieste da parte della casa discografica. Potete alzare la voce di Eddie. E c’è la questione dei video. Possiamo avere una decisione sul regista? E sulle interviste. Dovete farne alcune. Le risposte alle domande sono No Davvero, No, e Dopo. Le decisioni turbinano attorno al gruppo ogni ora, ma i Pearl Jam sono intenzionati a far le cose a modo loro. Il titolo del disco sembra appropriato. La frase viene da una delle nuove canzoni, Animal. “Per me quel titolo rappresenta le lotte che devi affrontare per riuscire a fare un nuovo disco,” dice Gossard, che ha scelto la frase. “La tua indipendenza, la tua anima, contro tutti gli altri. In questo gruppo, e penso nel rock in generale, l’arte del compromesso è quasi importante quanto l’espressione individuale. Puoi avere cinque grandi artisti nel gruppo, ma se non riescono a raggiungere un compromesso e lavorare insieme, non hai un grande gruppo. Può voler dire una cosa completamente diversa per Eddie, ma quando ho sentito quel testo, aveva molto senso per me.”
È il secondo giorno a Roma. Vedder è seduto in cima alle gradinate dello stadio in questo pomeriggio di luglio di un caldo incredibile. Indossa una maglietta con la scritta I LOVE GRUNGE. È piuttosto sconosciuto in questo paese, e la cosa gli va bene. “Tutto questo successo, credo che tutti gli altri nel gruppo siano più felici di me a riguardo,” dice. “Beati loro. Ci stanno bene. Se lo godono persino. Io non ci riesco. Non è che pensi di essere migliore di loro. Non lo so. Semplicemente non sono felice come persona.” Alza le spalle. “Non lo sono. Quello che mi piace è vedere la musica, avere la possibilità di vederla. Guardare Neil Young. O riuscire a vedere i Sonic Youth dal lato del palco. Questo è quello che è bello per me. La musica è un mezzo incredibilmente potente per raccontare una storia. E la cosa migliore è che deve essere ad alto volume. Devi suonarla forte. Farei di tutto per essere nella musica. Non devi neppure pagarmi.”
Vedder confessa di aver avuto qualche difficoltà recentemente nello scrivere per i Pearl Jam. Come ha fatto notare Gossard, gli altri ora lo chiamano il loro portavoce, e con questo viene anche una certa etica di Eddie. Vedder lavora con il manager Kelly Curtis per tenere bassi i prezzi dei biglietti e per indirizzare la potente macchina promozionale della Sony Music. Ma all’interno di questo si trova la grande contraddizione. Gli artisti che ammira di più sono proprio quelli che hanno girato le spalle alla macchina del grande rock, come Henry Rollins e Ian MacKaye dei Fugazi. E Vedder, colui che non dormiva mai, continua a non dormire. “Non l’ho mai fatto,” dice. “Non l’ho mai fatto e davvero continuo a non farlo. Ho questo spasmo. Mi sveglio e dico AARRRGH. Mi also e comincio a prendere velocità. Entro in una stanza, la Tv è accesa e c’è la mia faccia, e comincio a dare i numeri. Voglio chiamare un amico e dire: ‘Sto perdendo la testa?? Ho bisogno di una prospettiva.’ Ho parlato con Henry Rollins un giorno. Ho detto: ‘Amico ho bisogno di una prospettiva davvero in fretta.’ E mi sono davvero sentito male a fare una cosa del genere. Perché l’ho chiamato per la stessa ragione per cui i ragazzini chiamano me.”
Ovviamente ti domandi se non sia tutto parte di un elaborato meccanismo di difesa da parte di Vedder. Come puoi attaccare una persona che si attacca da sola? Come puoi dubitare della credibilità di una persona che ha vinto un MTV Video Music Award per Jeremy e che ha detto a 50 milioni di telespettatori che “se non fosse stato per la musica, mi sarei sparato di fronte alla mia classe.” Nonostante tutta la sua onestà ci sono ancora molti misteri che Vedder non rivela. Anche un compagno stretto come McCready dice:”No, non so se abbiamo mai avuto quella grande discussione che ti lega. La nostra relazione sta ancora crescendo. Probabilmente l’avremo presto.”
Quando gli viene chiesto della sua infanzia, Vedder rimane vago. Racconta un aneddoto di quando faceva il cameriere a Chicago. Racconta del trasferimento a San Diego, di aver comperato una poltrona a fagiolo e il suo primo stereo. Racconta di aver registrato dei concerti, cosa che fa ancora oggi con un piccolo registratore. Tutte cose perfette per creare un mito, ma quando si confronta con domande sulla sua infanzia, Vedder diventa vago. Dei suoi primi ricordi dice solo:”Sono confuso. Sono confuso di tutto. Non so quello che sta succedendo ora.”
Risponde ancora alle lettere dei fan, anche se meno frequentemente, e a volte, quando il tour manager Eric Johnson passa in ufficio la sera tardi trova Vedder che telefona a qualche fan con dei problemi. Dopo un concerto a San Francisco ha detto cautamente a un fan: “Non sono davvero nella tua testa. Non riesco a vedere i tuoi pensieri più privati.” Il fan sembrava così deluso. Vedder, d’altra parte, ha imparato l’effetto pubblico dello scrivere bene di personalità danneggiate.
“Ero sorpreso e anche un po’ scioccato di come molte persone potessero riconoscersi,” dice Vedder. “Tutti sono fottuti, in effetti ora capisco meglio tutti questi canali televisivi religiosi. Tutti hanno bisogno di qualcosa.” Fa una lunga pausa. “Non ci dovrebbero essere messia nella musica. La musica stessa, la musica non mi dispiace adorarla. L’ho fatto. E insieme a quello c’è una certa ammirazione per chi la fa – o un certo timore reverenziale o qualunque cosa – ma non ho mai chiesto di avere un pelo del naso di Pete Townshend.”Ancora a Roma, il secondo giorno i Pearl Jam offrono una performance combattiva. “La prossima volta ci rivedremo in un club qui,” risponde Vedder a degli applausi sparsi. Poi comincia a pungolarli dicendogli che il loro stadio è stato costruito per il calcio, non per la musica. E sotto un’insegna al neon di Zoo TV, scherzosamente aggiunge: ”Siamo animali?”. Non sia mai detto che a Vedder non piaccia mordere la mano che lo nutre. La sua maglietta verde ha la scritta “PAUL IS DEAD” (il vero nome di Bono.) Il set si conclude con Vedder che indossa un’enorme maschera da mosca, ballando come se fosse intrappolato in una ragnatela. E’ la risposta a bassa fedeltà allo Zoo Tv. Non molti fan se ne accorgono, ma uno che lo fa è Bono, che osserva incuriosito dal pit.
Bono risponde più tardi dal palco. “Così non potete fare musica in uno stadio da calcio,” riflette. “Beh se lo fate, è meglio che sia grande musica”. Ma prima che finisca il concerto saluta i Pearl Jam come “una grande gruppo rock” e Vedder, Liebling e Ament trascorreranno la notte in piedi con Bono e The Edge, parlando appassionatamente in un ristorante, dibattendo del tema del giorno: il tasso di scambio emotivo del successo. Alle 6 di mattina, ecco Vedder e Ament che abbracciano Bono in una deserta strada romana, arrivando appena in tempo al bus per il viaggio a Dublino.
“Ho avuto la risposta a tutte le mie domande,” confida Ament. Nel corso delle date con gli U2 hanno discusso del problema del successo rispetto alla purezza con tutti e quattro i membri di quel gruppo. “E in pratica ci hanno detto: ‘Eravamo come voi. Eravamo anti-anti. Eravamo arrabbiati. Ma amiamo la tecnologia. Come voi amate quello che amate. Il prossimo tour potremmo farlo in posti da 3.000 persone. Ma qui è dove siamo oggi. Tra 10 anni ci direte voi dove siete.”
Oggi a Dublino, il giorno prima che i Pearl Jam suonino di fronte ad una folla di 50.000 persone al vicino Slane Castle, Abbruzzese osserva circa trenta ragazzi che cantano risolutamente una versione da strada di Black e di State of Love and Trust. Abbruzzese sogghigna, gettando fiori su Grafton Street, scherzando con i ragazzi in strada. “Passato il sole da spiaggia italiano. Qui piove, facce pallide, romantiche liti da birra nella strada, è come essere a casa.”
Altrove si vocifera che McCready abbia esagerato, correndo nudo per le strade di Dublino la notte precedente. McCready, che sta comperando alcuni bootleg, non conferma né nega. “Amo questo posto,” dice.
Nel backstage, il giorno seguente, c’è poco che ricordi il grande rock. Niente bar, niente stereo, niente guardie del corpo, nessuna supermodella. Solo Vedder che spiega perché non gli potrebbe interessare di meno. “Provo imbarazzo per alcuni dei veterani della musica,” dice. “Avevano la loro immagine originale da macho e ci sono rimasti attaccati. Il sesso… continuano ancora a lavorarci sopra. Il tipo di cose alla Questo-tizio-sembra-tuo-nonno. È così sciocco, ti fa quasi star male. Questi tizi stanno ancora usando la versione antica di quello che è sexy, i bikini e le lingue. È il passato.” La relazione di Vedder con Liebling, una scrittrice, è la più importante che abbia avuto nella sua vita. Dura da nove anni. Dice che forse presto si sposeranno. E quando sarà tempo di avere una famiglia, sarà un padre devoto. Cita il padre di Michael Jordan, allora ancora vivo, come esempio perfetto. “Il genitore perfetto è quello che, una volta presa la decisione di avere dei bambini, che significa dare a qualcuno una possibilità, farà tutto quello che è nelle sue possibilità per sostenere il ragazzo in modo che possa davvero realizzarsi,” dice. “E sento che questo, negli ultimi 20 anni, è stato tolto all’essere genitore. Io ho una vita reale. Voglio trarre il meglio dalla vita reale.”
Seduto all’ombra dello Slane Castle, vecchio di 200 anni, con un pallido sole che illumina la sua faccia, a Vedder viene chiesto della sua infanzia. Cosa ci dici di tuo padre? “Non ho mai conosciuto il mio vero padre,” dice. “Avevo un altro padre con cui non andavo d’accordo, un uomo che pensavo essere mio padre. C’erano liti e brutte, brutte scenate. Me ne sono andato piuttosto giovane, non ho mai finito le superiori.”
Era Eddie Mueller allora. Dopo essersi trasferiti per un breve periodo a San Diego, entrambi i genitori fecero ritorno a Chicago. Vedder, che in seguito prese il nome da ragazza di sua madre, rimase lì per inseguire la sua carriera nella musica. Ci fu un duro addio col patrigno. Non si sono più parlati da allora. In seguito, quando Vedder viveva a San Diego, sua madre venne da Chicago con alcune notizie importanti che lo riguardavano. “Venne con uno scopo specifico,” dice. “Per dirmi che quell’uomo non era mio padre. Mi ricordo di averle detto ‘So che non è mio padre è uno stronz fottuto o.’ E lei disse ‘Oh Eddie, non è davvero tuo padre.’”
“All’inizio ne ero piuttosto contento, poi mi disse chi era il mio vero padre. Avevo incontrato quell’uomo tre o quattro volte, era un amico di famiglia, un amico lontano. Morì di sclerosi multipla. Quando lo incontrai era all’ospedale, aveva le stampelle, o forse era su una sedia a rotelle.” Vedder gioca con le sue scarpe lacere. In qualche modo, mezzo mondo lontano da casa, le parole fluiscono facilmente mentre ricorda, come dice lui, “il giorno in cui l’ho scoperto.”
”C’era un piano nella mia stanza,” prosegue, “e mi ricordo che avrei voluto veramente saper suonare una canzone allegra. Ero felice per un minuto e poi andavo giù. Dovevo fare i conti col fatto che era morto. Il mio vero padre non era più su questa terra. Dovevo fare i conti con la rabbia che non mi fosse stato detto prima, che non mi fosse stato detto quando era ancora vivo. Era un grosso segreto. I segreti sono notizie cattive. I segreti sulle adozioni e cose del genere sono destinati a saltar fuori, non teneteli. Diventano solo sempre più grossi, sempre più profondi, sempre più oscuri, e terribili e incasinati.
“Musicalmente ho provato a pensare se avevo uno scopo preciso, e quale fosse, e penso che più di ogni altra cosa fosse di lasciare qualcosa a mio figlio, se ne avessi avuto uno che avesse voluto ascoltare. In effetti io sono un junior. Il mio vero nome è qualcosa-qualcosa terzo.” I fan possono trovarlo nei credits di Alive su Ten. Il padre biologico di Vedder, si è scoperto, era anche lui un musicista, un organista che cantava nei ristoranti. Una volta che Vedder seppe la verità sulle sue origini, gli altri parenti si fecero avanti.
“C’erano tutte quelle cose che volevano dire,” ricorda. “come: ‘Ecco da dove hai preso il tuo talento musicale’ e io pensavo ‘fottetevi.’ A quel tempo avevo 14 o 15 anni, Non sapevo nemmeno cosa cazzo stesse succedendo. Ho imparato a suonare la chitarra, risparmiato fino all’ultimo centesimo per comperarmi l’equipaggiamento e voi mi state dicendo da dove viene? Fottetevi.
Vedder dice questo tranquillamente, ma il tempo a malapena ha addolcito le sue emozioni. Non è una sorpresa che Quadrophenia, il classico racconto degli Who sulla gioventù inglese abbandonata del ’73, sia stato il suo “Giovane Holden.” (ha detto una volta in un’intervista: ”Dovrei mandare un biglietto a Pete Townshend per la festa del papà”). La musica gli ha salvato la vita, dice, ma la turbolenta giovinezza di Vedder alimenta ancora la sua musica. “I miei ora sono molto orgogliosi di me,” dice, “e di nuovo, gli sono grato per avermi dato materiale per una vita su cui scrivere.”
Recentemente, un incontro con un cugino del suo vero padre, lo ha lasciato con un senso di chiusura. “La cosa strana,” dice, “è che ci siano così tante somiglianza tra me e mio padre. Non ha avuto impatto sulla mia vita, ma eccomi qui. Sembro lui. La gente della mia famiglia – non possono farne a meno – mi guarda come se fossi un suo sostituto. È qui che entra in gioco Alive.” Fa una pausa. “Ma ora sono orgoglioso di lui. Apprezzo le mie origini. Ho un sentimento molto profondo per lui nel mio cuore.”
Divertiti. Senti spesso questa frase attorno a Vedder. Lui raramente ha una risposta. Divertiti. Certamente i suoi sogni rock si stanno avverando: cantare Masters of War al concerto di tributo a Bob Dylan l’anno scorso, cantare con i Doors alla R&R Hall of Fame e incontrare finalmente il suo eroe, Pete Townshend. Ma divertirsi per lui, sembra che voglia dire avvicinarsi ancora a quelle rock star nelle riviste, quelle che si arricciano i capelli, quello che l’ha portato a scrivere la dichiarazione definitiva dei Pearl Jam in Blood: “It’s my bloooood.”
È troppo tardi per essere i Fugazi, e Vedder lo sa. Ma comunque i Pearl Jam offrono ai propri fan una sfida: fate i booleg dei nostri concerti se potete, prendete i nostri album e duplicateli, non glorificateci. Vedder ha dato via da molto tempo la sua giacca marrone che gli era stata data da Gossard, quella che ora è stata rifatta dall’industria della moda e venduta a 1000$ come indumento grunge. Il gruppo non permette più tuffi dal palco per motivi di sicurezza, e anche le scalate di Vedder sembrano essere storia. Vedder ci offre un’interessante prospettiva:“L’arrampicarsi per me era un modo per dire: ‘Guardate come sento estrema questa situazione. Questo è quanto fottutamente intensamente sto prendendo questo momento.’ Non puoi farlo per molto, perché quello che vogliono davvero vedere è che tu ti tagli il tuo cazzo di braccio, che lo tenga sopra la testa, che lo faccia roteare spargendo sangue attorno, e credimi se facessi una cosa del genere la folla impazzirebbe davvero. Avresti solo 4 spettacoli però. Quattro buoni spettacoli e rimarresti solo col torso e con la testa, cercando di convincere un tuo compagno a darti un ultimo momento di gloria tagliandoti la testa. Cosa che probabilmente loro non farebbero, sarebbe davvero l’inferno.”
“Ma,” dice Vedder con una risata, “direbbero, canta col diaframma, almeno quello funziona ancora.” Il pubblico di Dublino è molto sveglio, spinto dalla rabbia e dalla birra. Van Morrison suona per il pubblico di casa, ed è salutato come un amato zio. Scende dal palco solo pochi minuti prima che la folla, aspettando i Pearl Jam, si accalchi verso il paclo. “Amo sentire una certa pressione nell’aria,” dice McCready, sbirciando la massa ribollente dei fan irlandesi. “Un certo grado di pazzia nella folla, buona o cattiva che sia. È questo che ci fa crescere.”
I Pearl Jam salgono sul palco e la folla si stringe ancora di più contro le barriere. È brutale giù davanti e la sicurezza sta tirando fuori i semisvenuti uno per uno, prima ancora che una nota sia suonata. Vedder appare con una maschera da gorilla, se la toglie e si getta in Why Go.
È una folla felicemente abbarbicata sull’orlo del pericolo, e oggi riceve il meglio dai Pearl Jam. Sul palco il gruppo si manca di poco mentre tutti, in modi differenti, saltano per la gioia, pogano e piroettano, mancandosi la testa con gli strumenti di pochissimo. La folla non spaventa Vedder. Canta seriamente alle facce serie che lo ascoltano come lui ascoltava gli Who, con tutte le loro vite dietro. Sta sul bordo del palco, guardandoli, e si gira per dividere il momento con Liebling che sta riprendendo tutto con una super8.
Era il concerto che aspettavano, una visione del futuro. “Se tutto dovesse finire domani,” dice Abbruzzese, “sarei il fottuto benzinaio più felice che tu abbia mai visto.”
Meglio di tutto, i Pearl Jam non sono più un gruppo con un unico enorme album al proprio attivo. “Non c’è una scuola che ti prepari alla strana merda che ti capita,” dice Vedder. “La fottuta stranezza di tutto. Ma qualcuno ti può aiutare un po’. Il consiglio di Bob Dylan è stato: ‘Vai a Dublino.’ Gli ho mandato una cartolina oggi.”
“C’era scritto:’Fatto’.”