Special to MSN Music | Marzo 2009
By Alan Light
Traduzione a cura di As_It_Seems
Nel 1990, il bassista Jeff Ament e i chitarristi Stone Gossard e Mike McCready erano a Seattle, e non andavano velocemente da nessuna parte. Il trio si era formato dalle macerie di due band precedenti, e stava lavorando su alcune canzoni nuove, cercando un batterista e un cantante.
Diedero un demo tape di cinque pezzi all’ex batterista dei Red Hot Chili Peppers, Jack Irons; Irons, a sua volta, lo passò ad un amico, a volte vocalist, a volte custode presso un distributore di benzina a San Diego, che si chiamava Eddie Vedder. Mentre faceva surf un giorno, i testi iniziarono a prendere forma nella testa di Vedder. Registrò le parti vocali su tre di quei pezzi (“Alive,” “Once,” e “Footsteps”) in una suite che chiamò la “Momma-Son Trilogy,” e rispedì il nastro a Seattle.
Quando i tre musicisti sentirono questa registrazione fatta in casa, fecero venire Vedder per una audizione di persona. Nel giro di una settimana, Vedder faceva parte della band.
La cassetta “Momma-Son” è il momento di genesi per il gruppo che diverrà noto come Pearl Jam, e quelle tre canzoni hanno formato il nucleo del loro album del 1991 “Ten”, uno dei più grandi album rock di tutti i tempi. Sebbene “Nevermind” dei Nirvana, lo yin rispetto allo yang di “Ten” come le doppie fondamenta della rivoluzione dell'”alternative rock”, sia generalmente considerato l’album che ha definito un‘epoca, il 12-volte disco di platino “Ten” finì in realtà per vendere più copie.
Mentre stava lavorando ad una nuova, estesa ripubblicazione di “Ten,” Ament si è imbattuto nella cassetta “Momma-Son” per la prima volta da quando era arrivata. “Ero stupito di come un paio di canzoni siano venute fuori nel disco quasi identiche a quei demo”, dice al telefono da Seattle. “L’ho fatta sentire ad Ed, e ci siamo fatti un sacco di risate. Ha detto che l’aveva buttata giù nel cuore della notte, e non sapeva se ne sarebbe venuto fuori qualcosa. Devo dire che era decisamente molto meglio di quello che pensavo sarebbe stata”.
Una replica di quella mitica cassetta è inclusa nella “Super Deluxe Edition” di “Ten”, insieme all’LP dell’album rimasterizzato per il vinile, un DVD dell'”MTV Unplugged” del 1992, un doppio LP live registrato nel 1992, e copie di varie note, appunti e roba varia dell’era che ha visto i Pearl Jam catapultati nello status di superstar. (Ci sono 4 diverse versioni della pubblicazione; la “Legacy Edition” di base è una rimasterizzazione dell’album, allegata ad un nuovo remix delle canzoni curato dal vecchio produttore dei Pearl Jam, Brendan O’Brien, più sei bonus tracks.) La ristampa dà l’avvio ad una campagna di due anni di ripubblicazione del catalogo, che porterà al 20° anniversario della band nel 2011.
“Come ascoltatore, ho sempre cercato demo o take alternative, per vedere come crescono e si sviluppano le canzoni”, dice Ament. “Ti permette di entrare nelle canzoni e vederne la crescita – o gli errori, dipende”.
MSN Music: Da dove è nata l’idea di rivisitare “Ten”?
Jeff Ament: Ci sono sempre state delle cose di cui non ero contento riguardo “Ten”. C’era stata un po’ di lotta di potere tra me e l’ufficio artistico della Sony riguardo l’artwork. L’ultima versione che ci arrivò è quella che tutti conoscono, e a quel tempo in pratica ci hanno detto “Se cambiamo questa, non possiamo far uscire il disco per sei mesi”. La cosa più importante per noi all’epoca era uscire e suonare ed essere una band migliore. Ma la nostra intenzione per quel colore rosa della copertina era sempre stata che dovesse essere più borgogna, rosso scuro. Così, prima di tutto, questa era una grande opportunità di tornare indietro e correggere questa cosa. Poi, durante lo sviluppo della cosa, abbiamo iniziato a guardare al progetto nel suo insieme. Ed ha trovato una scatola di roba di quel periodo, io ne ho trovata altra – c’era questo incredibile pacco di roba conservata. E, finalmente, abbiamo convinto Brendan O’Brien a remixarlo, dopo che aveva trascorso 15 anni a dire che non voleva andare nel passato e toccare un classico del genere, ed è ampiamente migliorato.
Siete sempre stati insoddisfatti del suono dell’album?
Quando abbiamo realizzato “Vs”, il nostro secondo disco, ricordo di aver pensato “Cavolo, vorrei che il nostro primo disco suonasse come questo”. Pensavo che fosse più diretto, più potente. So che Stone pensava che il riverbero su “Ten” coprisse la nostra inabilità a suonare all’epoca, ma quando ho trovato la cassetta dei mixaggi grezzi, suonavano formidabili. Questo mi ha spinto a implorare Brendan di considerare l’idea di farlo.
Tutti volevano vedere cosa ne sarebbe venuto fuori. Quando l’abbiamo sentito, era evidente che dovevano essere inclusi e che, perlomeno, erano una validissima alternativa al mixaggio originale.
Non siete stati per niente riluttanti ad alterare un album così monumentale? L’unico precedente a cui riesco a pensare è quello che fecero i Beatles con il progetto “Let It Be … Naked”, rimuovendo il lavoro che aveva fatto Phil Spector sull’album pubblicato e quindi remixando le registrazioni originali.
Questo è un buon confronto, perché io amo “Let It Be”. E’ stato uno dei primi dischi che ho comprato, ed ero abituato a quello che Phil Spector aveva fatto con quelle canzoni. Ma posso capire perché Paul McCartney abbia pensato che la versione “Naked” fosse superiore. C’è una minore impronta del produttore su quelle canzoni. Penso che questi mixaggi siano più come Truffaut, come la versione in bianco e nero di “Ten”. E’ un suono più crudo, più presente. Il package li include entrambi, perciò starà all’ascoltatore decidere quale sia quella definitiva.
Cosa hai sentito nel modo di suonare della band quando siete tornati a queste registrazioni?
Sapevo che facevamo dei concerti pieni di energia, ma da quello che ricordavo non eravamo proprio fenomenali come musicisti. Invece ritornando a quei demo e ascoltandoli in una forma abbozzata, ora penso “Wow, non eravamo affatto male”. La versione di “State of Love and Trust” con Dave Krusen alla batteria è decisamente migliore di quella che ha finito per essere pubblicata. Io pensavo che non fosse un batterista fenomenale, ma in realtà ha fatto un lavoro meraviglioso, ed io sono arrivato ad avere un nuovo rispetto per lui.
I Pearl Jam sono ancora enormemente popolari, per cui eravate tutti convinti che fosse una buona idea dedicare tutta questa attenzione ad una ristampa?
Sì, ogni volta che si parla di ristampe o nuove versioni di vecchi progetti, si inizia a pensare “Aspetta un minuto, noi siamo ancora una band vitale”. Stiamo lavorando ad un disco nuovo adesso e non vorremmo che niente intralciasse questo cammino. Ma, specialmente con “Ten”, c’erano delle cose che non erano state fatte nel modo in cui volevamo noi. Non so riguardo agli altri album. Sono piuttosto contento della maggior parte di loro, ma mi sono impegnato con me stesso ad interessarmi di questo qui.
E, nel farlo, abbiamo ascoltato tutti quali fossero i ricordi di ognuno riguardo quel periodo. E questo ha riempito alcuni buchi, perché è stato un periodo così folle. Le cose si muovevano ad una velocità alla quale nessuno di noi era preparato. Per un anno e mezzo, in una giornata tipo avremmo potuto svegliarci, fare cinque o sei interviste, fare un’apparizione in un negozio, andare a fare il sound check, fare un’altra intervista o due, fare il concerto, andare al dopo-concerto, stare in piedi tutta la notte, e poi rifare tutto di nuovo il giorno successivo. Era proprio impossibile ricordare tutto.
Qual è la prima cosa che ti viene in mente quando pensi a quel periodo?
C’è stato un concerto a Cincinnati, credo, o forse a Columbus. Avevamo fatto solo una manciata di concerti negli States, e poi eravamo andati in Europa per sei o sette settimane, e mentre eravamo via, l’album esplose. Questo accadeva prima dei cellulari o di Internet o altro, così penso che i nostri manager cercarono di raccontarcelo, ma veramente non ne avevamo idea, non avevamo capito. In Europa, suonavamo davanti a 200 o 300 persone e quando siamo tornati, avrebbero dovuto essere 400 o 500. Ma improvvisamente siamo tornati e ci siamo ritrovati a suonare in spazi da 2.500 posti – è stato come “Wow, cos’è successo?” E dopo questo concerto in Ohio, c’erano 500 persone nel parcheggio, che circondavano il bus. Non avevamo mai avuto un’esperienza del genere prima di allora. Quello è stato il momento in cui abbiamo capito che qualcosa era cambiato.
Tutti avevamo fatto parte di altre band per otto o dieci anni, e lavoravamo un mese per mettere su un concerto – stampare i volantini, metterli in giro, fare le T-shirt, affittare il locale – e poi, all’improvviso, Keith Richards vuole che suoni alla sua festa di compleanno e Neil Young vuole che tu vada in tour con lui, è davvero difficile riuscire a non dire di sì a tutto. E non sapevamo più quello che dovevamo fare finché ci siamo detti “Dobbiamo fermarci”. Davvero, c’è una lezione in questo, “Fai attenzione a quello che desideri”, perché di colpo potrebbe avverarsi tutto.
Passare così tanto tempo con questo materiale sta influenzando l’album al quale state lavorando?
Abbiamo iniziato a scriverlo prima di essere coinvolti nella roba di “Ten”, per cui in parte era già in movimento. Ma ascoltare i demo, e un po’ di altre cose che non erano finite nel disco o che non erano nemmeno diventate della canzoni complete, mi ha fatto ricordare di un periodo in cui suonavamo con molte meno regole. Non sapevamo molto di teoria musicale, non sapevamo “questo è maggiore, questo è minore, quello non è adatto a questa scala.”
Senti che questo sta venendo fuori nelle canzoni nuove?
Io ho scritto un paio di cose da allora e ho pensato “Sì, qui posso metterci questa strana nota”, anche quando il mio istinto attuale mi dice che è sbagliato. Perciò è bello ricordarsi che il rock and roll non è suonare dentro confini determinati.