Dalla lotta contro Ticketmaster al proprio sabotaggio pubblicitario, la storia dei Pearl Jam è un manuale sul suicidio professionale. Eppure i virtuosi crociati del rock rifiutano di fermarsi.
The Guardian | 13 agosto 2009
By Dave Simpson
Traduzione a cura di Irene
Nel cuore del quartier generale dei Pearl Jam a Seattle, il cantante Eddie Vedder riflette su cosa si prova ad essere una delle due persone che rappresentavano, per il pubblico più ampio, i volti del grunge. L’altra era Kurt Cobain, la cui band, Nirvana, è entrata a far parte dell’olimpo del rock, avendo venduto negli US 10 milioni di copie del loro secondo album, Nevermind, pubblicato nel Settembre del 1991. Circa un mese prima, i Pearl Jam avevano pubblicato il loro album di debutto, Ten. Ad oggi ha venduto 13 milioni di copie negli Stati Uniti. Un successo di questo tipo esigeva un prezzo da pagare per entrambi.
Quando i Pearl Jam arrivarono al successo, la prima reazione di Vedder fu di aprirsi. Rispondeva direttamente ai fans che gli mandavano lettere chiedendogli dei suoi testi, di depressione e alienazione. Ma le lettere diventarono una valanga. Poi i fans iniziarono ad andare a casa sua. Una ragazza che credeva che Vedder fosse Gesù e che le avesse fatto dare alla luce due figli dopo averla violentata, per poco non rimase uccisa mandando a sbattere la macchina contro il muro della sua casa.
“Una delle ragioni per le quali inizi a proteggere te stesso è perché hai mostrato apertamente le tue emozioni,” dice. “Allora devi costruire un muro. Ed ora le persone vanno a sbattere contro il muro. E’ questo che ti fotte la testa. Io mi sentivo come se il mio cervello fosse una puttana e mi stessero fottendo la mente.”
Come Cobain, Vedder era combattuto tra due direzioni. Era grato per il successo dei Pearl Jam, per il modo in cui aveva cambiato la sua vita. Ma non voleva che la sua intera vita cambiasse. Vedder non era uno di quei “ragazzini industriali che vengono istruiti per comparire su un cazzo di Disney channel per fare quello che gli viene detto ”. Non era preparato per essere una rock star a richiesta – era come “essere legati ad un missile. Ma alcuni di noi non erano fatti per la velocità.” Detestava aver perso il controllo della propria identità, con la sua faccia che saltava fuori sui manifesti e sulle riviste, asfissiandolo. Al Roskilde festival in Danimarca nel 1992, si ritrovò ad aggredire i buttafuori (che avevano aggredito un fan); aveva dimenticato che non faceva più parte del pubblico. Cobain, alienato in maniera simile, si rifugiò nell’eroina e si uccise. Vedder si rifugiò dentro se stesso. Racconta che il film “Last Days” di Gus van Sant del 2005 – una descrizione immaginaria della fine di Cobain – ha catturato “quello strano malessere, quella sensazione quasi di guardare la tua vita dal di fuori. ‘Questi siamo noi? Questo sono io?’
“Ero quasi sopraffatto da tutto questo,” dice. “Avevo questa casa – non una casa enorme, ma tre o quattro belle stanze, e un jukebox. E c’era una stanza per la lavanderia, e mi sedevo lì con un portacenere a cui ero affezionato. Era come se il mondo non potesse trovarmi quando ero in quella stanza.”
Più di 15 anni dopo – e a più di 20 anni da quando è stato coniato il termine “grunge” per descrivere l’ibrido metal-punk del nordovest del Pacifico – Vedder si trova nell’ampio quartier gnerale dei Pearl Jam, che ospita di tutto, dalla sala prove al fan club al cane del chitarrista Stone Gossard. Qui, nascosti in una zona industriale, timbrano il cartellino dei loro spostamenti, un ritorno alla normalità che ha permesso loro di sopravvivere.
“Un terzo della gente si faceva di eroina,” dice Gossard, ricordando Seattle ai tempi in cui i Pearl Jam erano agli esordi. “Si faceva così.” Ma l’uso di droghe da parte dei Pearl Jam “era stato fatto in precedenza”. Il chitarrista Mike McCready racconta che sono andati più vicino all’uccidersi guidando ubriachi. “Oppure andavi in un locale e ti univi a persone che non avevi mai visto prima. Poi all’improvviso, ti ritrovavi con un gruppo di ragazzi che ti volevano accoltellare.”
Ma la maggior parte delle trappole nella loro carriera sono state fronteggiate da Vedder, la cui predilezione per i tuffi in mare dalle scogliere a precipizio portò i Red Hot Chili Peppers a chiamarlo “Crazy Eddie.” Più tardi, egli portò nella band quell’approccio “o gloria o morte”. “Facevamo concerti e lui si arrampicava sulle travi,” dice McCready. “E’ stato per parecchio tempo. E noi pensavamo, ‘Se cade, si ammazza.’”
Vedder è complesso. Viene spesso percepito come una versione rock del lodevole filantropo – non come Bono, ma certamente uno che va seriamente a fondo delle cose. Ma il bassista Jeff Ament insiste “è dannatamente isterico”. Ed ha un lato spinoso, anche se è difficile dire quanto sia dovuto all’atteggiamento da intervista. Dopo pochi secondi del nostro incontro, racconta che si rilassa con il lancio dell’ascia, poi tira fuori una foto di sua figlia di fronte al bersaglio. Lei non è lì quando lui fa i lanci, ci rassicura. “Non sono mai stato un tipo calmo, nella media” dice.
E allora cosa gli ha permesso di sopravvivere al contrario di Cobain? Vedder pensa che il suo “innato istinto di sopravvivenza” possa aver fatto la differenza.” “Eravamo guidati da cose diverse, ma eravamo treni paralleli,” dice. “Se guardi la cosa obiettivamente, pensi ‘Cosa cazzo può esserci di così difficile a stare in una band?’ Ma se vieni da un posto reale, è molto più dura.”
Sebbene i Nirvana abbiano rappresentato il mainstream del grunge, Gossard e Ament dei Pearl Jam sono stati tra i pionieri. Sono stati i membri fondatori di quella che si può considerare la prima grunge band, i Green River, che si misero insieme nel 1984. Quando i Green River si sciolsero, entrambi svilupparono un interesse fuori moda per il rock classico, con la loro nuova band, i Mother Love Bone, affinando la formula rock-meets-punk che ha poi animato i Pearl Jam. La carriera di quella band ebbe fine quando il cantante dei MLB Andrew Wood morì dopo un overdose di eroina nel Marzo del 1990, poche settimane prima della pubblicazione del loro album di debutto. Gossard era devastato, e iniziò a scrivere materiale che rispecchiava il suo umore. Alcuni mesi dopo chiamò il suo ex compagno di scuola McCready – un tormentato chitarrista locale che aveva abbandonato la musica – per venire a suonare. Ament si unì a loro, e nacque così un nuovo gruppo: Mookie Blaylock, dal nome di un giocatore di basket. I Mookie Blaylock firmarono per la Epic, ma per non avere problemi con il copyright dell’atleta, cambiarono il nome in Pearl Jam.
“Io ero in acido” ricorda McCready del giorno in cui venne a sapere della morte di Wood. “E’ stato un giorno così strano cazzo! Se non fosse successo non sarei seduto qui ora.” In effetti, i primi giorni della band devono tutto al caso. Uno di questi casi fu l’aver inviato una cassetta a Jack Irons, l’ex batterista dei Chili Peppers, nella speranza che potesse unirsi a loro. Invece Irons passò il nastro a Vedder, un compagno di basket che saltuariamente cantava in una band di San Diego. Vedder rispedì la cassetta a Seattle, con l’aggiunta di testi che raccontavano storie di un uomo che scopre che suo padre non è il suo vero padre e si imbarca in una violenta spirale omicida edipica.
La band li trovò divertenti. Non percepirono che in realtà erano storie parzialmente vere. Quando aveva 12 anni, Vedder scoprì che l’uomo che credeva fosse suo padre era in realtà il suo patrigno. Il suo vero padre era un uomo che Vedder aveva conosciuto come amico di famiglia, ma che era morto di sclerosi multipla. Ancora, dice Vedder, prova un senso di “disturbo adolescenziale”, ma paragona i suoi testi agli scritti di Virginia Woolf o di Edward Albee, dicendo che ridere di cose che sono “assolutamente brutali” è un modo per affrontarle. Ha trasformato la sua rabbia, dice, in “energia positiva” – l’opposto del nichilismo dei Nirvana.
Gli altri membri dei Pearl Jam hanno le loro teorie sul perché la loro band è riuscita a sopravvivere. La fortuna viene menzionata spesso. Il batterista Matt Cameron (che ha suonato nel primo demo dei Pearl Jam, ma è diventato un membro della band solo nel 1998) proveniente dai Soundgarden, dice che rimase sorpreso nello scoprire che la band faceva delle riunioni – parlare dei problemi era fuori discussione nella sua band precedente, che era stata “divorata dal business”.
Ma tutti concordano sul fatto che la decisione di Vedder di ritirarsi dalla grande celebrità è stato un momento cruciale. La sua non fu solo una reazione di panico agli incidenti come quello della ragazza con la macchina, ma anche il risultato di una riflessione pragmatica. Quando altre band intorno a loro iniziarono a vacillare, Vedder capì che andare avanti come stavano facendo avrebbe ucciso il gruppo. Ridurre e abbassare un po’ le mire poteva significare sopravvivere anche se si trattava di “decisioni impopolari.”
“Siamo passati dal suonare davanti a cento persone alla Central Tavern a ricevere telefonate che dicevano, ‘Keith Richards vuole suonare con voi’” dice Ament. “Il ragazzino che è in te pensa ‘Come possiamo dire di no?’” Ma dopo l’insistenza di Vedder, iniziarono a dire di no – ai video, alla promozione pesante, all’essere sempre in tour – prima della pubblicazione del loro secondo album. Dopo aver fatto dischi con sempre maggiore ostinazione, si sono occupati anche della distribuzione con le case discografiche. (Il loro nuovo singolo The Fixer viene pubblicato dalla loro etichetta negli USA, così come il nuovo album, mentre entrambi usciranno per la Island in UK).
Va detto che anche se Rolling Stone scriveva che i Pearl Jam “stanno distruggendo ogni aspetto del loro successo”, questo non li ha lasciati senza un soldo. Nonostante abbiano avuto passi falsi così come trionfi, riempiono ancora le arene e fanno da headliner ai festival. Con ‘The Fixer’ che sta ottenendo più attenzione dalle radio rispetto a qualsiasi cosa abbiano fatto da anni, sono anche al margine della moda.
Sentono di “avere l’autorità” di operare al di fuori del sistema – come le band hardcore punk e le etichette indie che seguivano da ragazzi – anche se non è così arduo da fare quando hai già venduto 60 milioni di album. Come dice Vedder: “Band come Fugazi [protagonisti del punk fai da te] ci fanno apparire come Mariah Carey.”
Tuttavia, contrastare l’industria musicale è parte di una lunga tradizione della band. Ament descrive la loro decisione più aggressiva – sfidare la potente agenzia di biglietti Ticketmaster nel 1994 riguardo ai prezzi dei concerti – come “suicidio di carriera”. Cancellarono il loro tour estivo del 1994 piuttosto che permettere a Ticketmaster di stabilire dei prezzi che loro non approvavano. A causa degli stretti legami di Ticketmaster con le arene negli USA, i Pearl Jam risultarono “persona non gradita” in molte grandi venues, e misero su da soli i loro show.
“Suonavamo nei parchi e nelle piste,” racconta Ament. “E qualcuno gridava ‘La recinzione è venuta giù per un miglio nell’angolo est!’ e mandavamo un tizio a cercare di sistemarla. E’ stato assolutamente stupido.” La band rilasciò una deposizione ad un’udienza del congresso sui prezzi dei biglietti, e quando non ne venne fuori nulla, decisero di fare causa a Ticketmaster. Ament dice che era come se avessero sfidato “l’insieme delle corporate Americane”. Persero, ebbero a che fare con Ticketmaster ancora per quattro anni, e Vedder ammette che le cose ora sono ancora più “corporate”. Ma pensa che l’inclinazione dei Pearl Jam a prendere posizioni che danneggiano loro stessi fa sì che “le persone hanno fiducia in noi. Hanno la sensazione che tutto questo abbia un significato”.
I Pearl Jam non prendono il loro ruolo alla leggera. Quando nove persone morirono in una ressa sotto il palco durante il loro set a Roskilde nel 2000, si ritirarono dai festival per sei anni. L’incidente rende difficile la conversazione. “Quando fermammo il concerto, c’erano persone a terra”, dice Cameron. “Nel giro di un minuto, i corpi vennero fatti passare sopra le transenne.” Ament non riesce a comprendere come un concerto rock possa trasformarsi in un “disastro”. Vedder non riesce a parlarne. “Non ce l’ho mai fatta” dice, dolcemente.
In quei giorni, il cantante riversa la sua rabbia nella campagna politica. Egli sostiene che diversamente dalle Dixie Chicks, i Pearl Jam non persero fans a seguito delle critiche all’amministrazione Bush, però “non ne hanno nemmeno guadagnati”. E’ ancora furioso nei confronti dell’ultima presidenza. “Quei maledetti bastardi, ci hanno messo in questa situazione e hanno incasinato l’intero pianeta e l’amicizia con ogni altra nazione, e non saranno ritenuti responsabili come criminali”.
Sopra di lui nel quartier generale c’è un ritratto di Obama. Vedder ammette che le cose stanno cambiando, ma ne rimangono ancora molte altre: “Le persone nel braccio della morte, il maltrattamento degli animali, il diritto di scelta delle donne. Troppe cose in America sono basate sul fondamentalismo religioso Cristiano. E’ ora d crescere! Questo è il mondo moderno!”
Sembra più un ragazzino arrabbiato che un uomo di mezza età. E sembra anche il contrario. Il nuovo album, Backspacer, è un ritorno al suono rock magistrale di Ten – ma forse il prossimo sarà un album di cover dei Crass. La band è solo “a metà strada” della sua carriera, dice Vedder, e forse questi guerrieri del grunge non saprebbero cosa fare se non ci fosse più da combattere. Quando chiedo a Vedder cosa farebbe se i Pearl Jam finissero domani, la sua replica è drammatica, pragmatica e ribelle.
“Porterei con me la chitarra”.