Special: Eddie Vedder dal vivo a Firenze e Barolo

Live report a cura di Laura Faccenda
Foto: Henry Ruggeri, Nicolò Quaglierini, Francesco Dornetto, Fabio Guardigli, Giovanni Nocco e Luca Villa

“Quanti bei posti ci fa vedere Eddie?” – esclama, sorridente, l’amica e compagna di concerti Mariella, mentre stiamo percorrendo la strada da Firenze a Barolo. Un’osservazione che risuona di meraviglia e di verità. Sì, perché i fan, specialmente quelli abituati a partecipare a molti degli appuntamenti previsti per il tour (lo spettacolo non sarà mai uguale al precedente o al successivo, lo sappiamo) diventano non solo i gladiatori di quell’arena chiamata parterre o pit ma anche gli esploratori, gli avventurieri, i protagonisti di veri e propri viaggi. Itinerari studiati, tappe impreviste o improvvisate, valigie con il buon proposito del “minimo indispensabile” e maglie, canotte, cappellini pronti per essere sfoggiati.

Firenze e Barolo. Sono state queste le mete scelte da Eddie Vedder per i suoi live italiani del 15 e del 17 giugno 2019. Due città geograficamente lontane ma accomunate, innanzitutto, dalle iniziative create per l’occasione. Nel capoluogo toscano, il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha lanciato un appello per portare le star del Firenze Rocks a visitare l’illustre museo: “Il rock è una grande arte e l’arte è da sempre grande anima del rock: per questo voglio invitare voi e i vostri fan in uno dei posti più rock di Firenze, la Galleria degli Uffizi. Voglio dire… conoscete qualcuno più rock di Caravaggio?”. Per la prima data del Collisioni Festival a Barolo, invece, è stato allestito un brindisi di benvenuto per le migliaia di persone previste.

Ecco. Il brindisi. Il vino. È forse questo l’elemento chiave che lega in maniera indissolubile le due location a Eddie Vedder. La passione del leader dei Pearl Jam per quello che, nei miti e nelle leggende, viene definito il nettare degli dei è cosa nota. La bevanda che regala quello stato di ebbrezza corrispondente a uno stato di ispirazione particolare: libero rendimento, sensorialità sciolta, prestazioni al massimo e plauso dei sostenitori. Il tutto, per funzionare, deve correre lungo un filo sottile, come quello che tiene ordinati i filari. Il punto di ideale che spesso, nei concerti, spalanca le porte alla più profonda confidenza e condivisione. Il denominatore comune di questo speciale sarà proprio il vino. Il Chianti, per Firenze. Il Barolo, per la cittadina da cui mutua la denominazione. Ho provato a rintracciarne le caratteristiche, miscelandole a quelle dei concerti a cui ho partecipato, accorgendomi, con stupore, che per molti aspetti corrispondono…

FIRENZE ROCKS, FIRENZE, VISARNO ARENA
SABATO 15 GIUGNO 2019

Opening Act: Glen Hansard, Nothing But Thieves, The Struts, The Amazons, Jameson Burt

Setlist: Cross the River (Pump Organ Song), Small Town, I Am Mine, Brain Damage(Pink Floyd), Immortality, Wishlist, Indifference, Wildflowers (Tom Petty), Far Behind, Just Breathe (w/ Red Limo String Quartet), Can’t Keep (w/ Red Limo String Quartet), Sleeping By Myself (w/ Red Limo String Quartet), Guaranteed (w/ Red Limo String Quartet), Black (w/ Red Limo String Quartet), Parting Ways, Should I Stay Or Should I Go? (The Clash), Porch

Encore: Red Limo String Quartet Improv, Alive (played by Red Limo String Quartet and Ed Vedder), Unthought Known, Better Man/Save It For Later (The English Beat, w/ Red Limo String Quartet), Song of Good Hope (Glen Hansard, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet), Society (Jerry Hannan, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet), Hard Sun (Indio, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet), Rockin’ in the Free World (Neil Young, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet)

Chianti: il vino Chianti Classico DOCG ha un colore rubino brillante, tendente al granato odore profondamente vinoso. Il gusto è asciutto, sapido, tendente con il tempo al morbido vellutato. Oltre che dalle uve scelte che lo compongono e dall’invecchiamento, esso dipende sia dall’annata che dalla coltivazione della vigna.

Sono circa 30.000 le persone che, dopo un intero pomeriggio di line up con le apprezzate esibizioni di The Amazons, Struts, Nothing But Thieves e il nostro caro Glen Hansard, attendono con impazienza l’arrivo del protagonista della serata. Ha fatto una breve comparsata Eddie Vedder, proprio durante il set del cantautore irlandese: una corsa veloce sul palco, protetto dalla visiera del berretto, per scattare un’istantanea del momento, come si fa tra amici… e, ovviamente, non è passato inosservato. Alle 21:45 esatte, la Visarno Arena risuona dell’intro Tuolumne che, con il suo arpeggio, svicola tra gli oggetti di scena.

Un allestimento ormai familiare per quello che sembra l’angolo di uno scantinato, di quegli scantinati a cui ci si affeziona perché custodiscono ricordi da toccare con cura, da non riprodurre troppo all’esterno (non a caso è apparso sul maxi schermo l’annuncio per la restrizione/divieto dell’uso di smartphone, camere, fotocamere e dispositivi elettronici). La doppia valigia vintage con le patch e gli adesivi, il cappello di paglia da turista, due statue con dei birilli al posto dei capelli (omaggio alla sequenza onirica del cult movie Il Grande Lebowski) e due stivali glam appoggiati all’organo (fedele replica di quelli indossati negli anni settanta da Elton John), argentati, dal tacco vertiginoso che per lo stile e le iniziali – E e J – rievocano, più romanticamente, la coppia Eddie e Jill (McCormick).

Sale sul palco il padrone di casa, facendo un cenno imbarazzato con la mano e sedendosi proprio di fronte ai suddetti stivali, all’organo, con il boato del pubblico alle spalle. Un atto di concentrazione, forse. Un esordio che, probabilmente, nessuno si sarebbe aspettato: Cross the River, la perla rimasta inedita e cantata sfiorando, da subito, tutte le sfumature baritonali di cui questa voce è stata benedetta, nel tempo. I saluti ufficiali sono affidati al rituale “Hello!” di Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, intonata all’unisono. “Buonasera! Devo ammettere che sono un po’ agitato… non è semplice esibirsi qua” – confessa Vedder, dopo la prima cover della setlist, Brain Damage dei Pink Floyd. Riprende il discorso, stavolta non in “italiano scritto sui foglietti” come suo solito: “L’Italia ha sempre dato tantissimo a me, alla mia band e alla mia famiglia. Proverò soltanto a restituire quello che mi avete sempre regalato”. La nota di gratitudine e malinconia che pervaderà tutta la serata si insinua già tra gli accordi di Immortality, Wishlist, Indifference e rimbomba tra un colpo e l’altro della percussione a pedale. Un live di presenza, ritrovo, abbracci calorosi che oltrepassano la barriera del palco. Un live, anche, di assenze e mancanze, tutte celebrate con profonda emozione. Tom Petty, ispirazione e grande amico di Eddie scomparso nell’ottobre 2017, è ricordato in Wildflowers. I musicisti del Red Limo String Quartet sono presentati prima di una riarrangiata Just Breathe, il cui respiro/sospiro è dedicato a un uomo “dalla visione romantica”, Franco Zeffirelli, venuto a mancare nelle ore immediatamente precedenti. E Sleeping By Myself, traccia numero due di Ukulele Songs e protagonista del set accompagnato dallo strumento hawaiano, ha una premessa ben precisa: “Finché non rivedrò mia moglie alla fine del tour, questa canzone è una storia vera, dormirò davvero da solo stanotte. Ma solo perché io sono in tour e lei è rimasta a casa per le ultime settimane di scuola delle ragazze, quindi non è per un cazzo di cuore spezzato. A meno che ovviamente Glen non voglia accoccolarsi vicino a me stanotte… lo accetterei, e anche lei, è molto comprensiva a riguardo. Sa quanto ami tutte le cose italiane e irlandesi”.

Un’ombra nostalgica che si dissipa nel ricordo di Chris Mccandless e nei brani della colonna sonora di Into the Wild che prendono vita anche nelle immagini scenografiche sullo sfondo: una prospettiva siderale, una foresta scintillante, il sorgere dell’alba.

Una cura del dettaglio, quello scenografico, differente e più rigorosa rispetto ai tour precedenti. Un frame in particolare che, probabilmente, è stato interpretato dalla fantasia del mio inconscio. Dopo un’inedita versione di Black che si infiamma sul maestoso e toccante arrangiamento del quartetto d’archi, due accordi arrivano dritti al petto, al cuore. La canzone che non ti aspetti o che non vuoi aspettarti perché sai che avrebbe un effetto tanto emotivamente destrutturante quanto catartico. Parting Ways diventa, per me, la chiacchierata con un amico che invita a guardare in faccia la realtà, sebbene faccia male. Ti racconta una storia parlando in “terze persone” ma parla proprio con te. La commozione, il pianto liberatorio, le lacrime rischiarate da quelle due lampade in primo piano, protagoniste sui maxischermi: grandi, maestose, vicine ma parallele, ognuna a splendere, di nuovo, per se stessa.

La sequenza dolceamara è sospesa da un siparietto ben più “punk”, durante il quale Vedder abbraccia il suo elettro ukulele e diventa animatore della serata esibendosi, con il divertito supporto del pubblico, in una velocizzata Should I Stay or Should I Go dei Clash. Pubblico che rende magico, poco dopo, l’intermezzo strumentale di Alive, rivisitata dalle talentuose corde del Red Limo String Quartet. Ogni verso viene cantato, gridato in coro a memoria, ogni pausa rispettata. Uno spettacolo che lo stesso artista esce ad applaudire, estasiato. Camminando lungo il sentiero tracciato dalla luna imponente del cielo fiorentino, celebrata nelle dolci melodie di Unthought Known e sulla scia del pensiero dedicato alla sua band, il secondo set, quello finale, si impreziosisce del ritorno sul palco di Glen Hansard per Song of Good Hope, Society, Hard Sun, Rockin’ in the Free World, ormai irrinunciabili cavalli di battaglia di chiusura.

Ebbene… i saluti sono stati troppo frettolosi? Probabile. Nonostante l’altissimo livello della performance, il cantante è apparso meno “comunicativo”? Un po’. Stanco, affaticato, non pronto al 100% per questo tour? Non lo so e non lo possiamo sapere. Sono circolate molte voci dopo la data del Firenze Rocks. L’unica legittimata a prevalere, a risuonare è sicuramente la sua, quella di Eddie Vedder. Un artista che domina le arene ma anche, e soprattutto, un essere umano con le sue ispirazioni più morbide e vellutate, con i suoi pensieri più aspri e asciutti, come gocce di Chianti. E come il succo di quelle pregiate uve, il sangue che scorre nelle sue vene, che lo tiene vivo, ancora vivo, ha il profumo delle annate che passano, ognuna differente e significativa. Una linfa che ha quel sapore che non può prescindere da tutto il sole e da tutto il buio da cui è stata intrisa, accarezzata, sfiorata.

COLLISIONI FESTIVAL, BAROLO
LUNEDI’ 17 GIUGNO 2019

Opening Act: Glen Hansard

Setlist: Keep Me In Your Heart (Warren Zevon), Don’t Be Shy (Cat Stevens), Hide Your Love Away (Beatles), Small Town, I Am Mine, Brain Damage (Pink Floyd), Sometimes, Good Woman (Cat Power), Wishlist, Indifference, Far Behind, Long Road (with Red Limo String Quartet), Guaranteed (w/ Red Limo String Quartet), Can’t Keep (w/ Red Limo String Quartet), Just Breathe (w/ Red Limo String Quartet), Better Man/Save It For Later (The English Beat, w/ Red Limo String Quartet), Last Kiss (Wayne Cochran), Porch

Encore: Red Limo String Quartet Improv, Jeremy (played by Red Limo String Quartet), Isn’t It A Pity (George Harrison, w/ Red Limo String Quartet), Unthought Known, I Won’t Back Down (Tom Petty), Black (w/ Red Limo String Quartet), Sleepless Nights(Bryant, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet), Song of Good Hope (Glen Hansard, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet), Falling Slowly (Markéta Irglová/Glen Hansard, w/ Glen Hansard), Society (Jerry Hannan, w/ Glen Hansard and Red Limo String Quartet), Should I Stay Or Should I Go? (The Clash), Hard Sun (Indio, w/ Chris Chelios, Glen Hansard and Red Limo String Quartet)

Encore 2: Rockin’ in the Free World (Neil Young, w/ Chris Chelios, Glen Hansard and Red Limo String Quartet)

Barolo: è uno dei più nobili vini piemontesi. Si presenta di colore rosso granato con riflessi aranciati. Al naso è complesso, persistente ed intenso. A note fruttate si accompagnano note più speziate. Il gusto è deciso, equilibrato ed elegante. Un vino di grande personalità.

Mi sono innamorata delle Langhe e delle sue colline verde speranza, dei filari ordinati che terminano sempre con una pianta di rose, dritti, come fossero soldatini che regalano un fiore alla propria amata. Ho esplorato con meraviglia i paesini arroccati, brulicanti di cantine, enoteche, piazze e vicoli sorridenti. Barolo è uno di questi. Una piccola cittadina di settecento anime che, oltre a dar nome al celebre vino rosso, da undici anni si contraddistingue per il Collisioni Festival: da una parte, la valorizzazione del territorio e dall’altra della musica, rappresentati rispettivamente dal simbolo del cappello di paglia e da quello dell’audiocassetta che domina bandiere e cartelloni. Un festival agrirock, appunto, la cui apertura è stata affidata a Eddie Vedder. Per l’occasione, le vie del paese sono invase da fan provenienti da tutta Italia e da tutto il mondo. Maglie su cui si stagliano i nomi delle band che hanno segnato l’epoca aurea degli anni Novanta, su tutti, ovviamente, quello dei Pearl Jam. È una scena che rievoca, con ironia, Glen Hansard, una volta salito sul palco assieme alla sua vissuta chitarra: “Ho girato molto in questi due giorni. Che posti magnifici! La natura, il vino, tutti con la t-shirt di Eddie!” – e continua, scherzosamente – “Mi chiedono spesso: “Ma è davvero così bello?”, “Sì, sì è bellissimo”… sto scherzando! Vi ringrazio tantissimo per essere qui”. Agli 8.500 di Piazza Colbert tale riconoscenza è dimostrata attraverso un set denso di qualità ed emozioni: Shelter Me è dedicata a un senzatetto conosciuto a Firenze, I’ll Be You, be me, estratta dall’ultimo album, descrive il legame osmotico legato dall’amore, Her Mercy è impreziosita da uno snippet della springsteeniana Drive All Night. Come springsteeniano è il tenero sipario della fan che sale su invito del cantautore irlandese per duettare su This Gift, dopo avergli donato uno striscione (lo ammetto… ho sognato e pianto tantissimo…).

Il fermento sale, come bollicine su un calice di spumante. È tutto pronto per accogliere Eddie Vedder che appare da subito più rilassato, più a suo agio nella cornice così familiare e appropriata alla struttura del suo spettacolo. Keep me in Your Heart di Warren Zavon scioglie il ghiaccio ed i cuori. Un brano sentito, fatto proprio come durante quella serata tributo a David Letterman, nel 2017, al quale il cantante l’aveva dedicata. Questa volta, però, sui balconi attorno al palco non siede lo showman americano ma si affacciano delle signore barolesi che ascoltano dalla posizione più invidiata del Collisioni. “Non ho mai suonato così vicino alla cucina di qualcuno” –confessa, divertito, il frontman dei Pearl Jam. “Grazie per essere qui. Ciao anche a voi laggiù… nell’altro paese!”. Small Town, I Am Mine, Sometimes seguono altre due cover di eccellenza come Don’t Be Shy di Cat Stevens e Hide Your Love Away dei Beatles. E poi quel pezzo che ho tanto sperato gli venisse in mente durante la stesura della scaletta. “Secondo me c’è Good Woman…”. Deduzione esatta. Il capolavoro di Cat Power è un teletrasporto diretto fra le pareti di un altro luogo, scrigno di uno dei live più suggestivi del Vedder solista: il Teatro Antico di Taormina. L’ho ascoltata lì, la prima volta, ed è stato come se un sarto me l’avesse cucita addosso. Con lo stesso tempismo perfetto è stata proposta a Barolo. Lui commosso, tra un verso e l’altro, tanto quanto me. E se tiriamo in causa la lista dei desideri, proprio prima dell’attacco di Wishlist, ad essere esaudito è il sogno di un’intera famiglia. Il cantante, infatti, nota tra la folla un bimbo sulle spalle del papà che gli sta lanciando dei baci. Si alza, tenta di avvicinarsi il più possibile, gli regala un plettro. Il bambino, però, continua e protrae al cielo le mani unite a forma di cuore. Non resiste “papà Eddie” e, poco dopo, chiede alla sicurezza di accompagnare padre, madre e figlioletto ai lati del palco per godersi il concerto in tranquillità, vicino a lui. Si spalancano, attimo dopo attimo, tutti i canali comunicativi.

L’artista racconta, dialoga, beve di tanto in tanto dalla bottiglia di Barolo d’annata, brinda, si dilunga nell’introduzione dei brani.

Una versione da brividi di Long Road, riarrangiata dal Red Limo String Quartet, si trasforma nell’accorata commemorazione della madre di un suo amico, scomparsa recentemente (“Mi sono accorto del tempo che passa da quando ho iniziato ad andare a più funerali che matrimoni”) e il viaggio tra i brani dei Pearl Jam e della soundtrack di Into the Wild conduce attraverso le tappe di un itinerario tutto personale: “Circa venticinque anni fa mi sono trovato a girovagare per le strade di una città allora sconosciuta, New York. Ho camminato fin quanto non ho visto il mio volto riflesso sulla vetrina di un negozio. “Questo sono io” – ho pensato. Beh, qui è capitata la stessa cosa con la differenza che il vetro nel quale mi sono specchiato era di una bottiglia di vino. Credo che questi siano i frutti di vent’anni di Barolo!”.

Nella località piemontese, il classico che inaugura l’encore è Jeremy, magistralmente “stravolta” dal quartetto d’archi ed elevata a coro altisonante per tutte le colline circostanti. Un’eco, un incantesimo che non si esaurisce nemmeno per un secondo, assumendo toni ora solenni ora giocosi. Uno dei più ispirati George Harrison è omaggiato, all’organo, con la chicca Isn’t It A Pity; Tom Petty è ricordato con I Won’t Back Down; Black, indimenticabile ad ogni concerto, compie tutto il giro della ruota e porta per mano ad uno spazio di leggerezza che coincide con il ritorno sul palco di Glen Hansard. “Stanotte non riuscivo a dormire” – inizia a raccontare Eddie – “Mi ha dato dannatamente da fare una zanzara che continuava a svolazzarmi intorno… szzssssszzzzssszzzz… prima si è appoggiata sul petto, poi sul braccio. Mi ha punto, si è ristorata del mio sangue ma non ha considerato la quantità di vino di cui era composto in quel momento. Chissà come sarà tornata a casa… sicuramente ubriaca!”.

E per ogni notte insonne, c’è una Sleepless Nights di consolazione. Il trittico Song of Good Hope, Falling Slowly e Society, con il cantautore irlandese a dare manforte, è un concentrato di vibrazioni: il primo brano si carica di così tanta energia che Eddie si ritrova con le mani sporte prima al cielo, poi al pubblico, come bisognoso di contatto.

La colonna sonora di Once, ad ogni ascolto, è un colpo dolcissimo all’anima per quei versi “You have suffered enough / And warred with yourself / It’s time that you won” che scendono giù, fino agli abissi. Le note che scandiscono la parabola di McCandless prendono forma, consistenza nelle due voci così complementari, nei controcanti perfetti e nella sfida finale a colpi di chitarre. Ed è al finale che ci si avvicina subito dopo aver attraversato l’immancabile parentesi “politicamente punk” con la riesumazione di una bottiglia di Barolo datata 1999 riportante l’etichetta “No barrique, no Berlusconi” e “musicalmente punk” con Should I Stay Or Should I Go all’ukulele elettrico.

Il “play” al mangianastri vintage è il segnale che sta per andare in scena il set di chiusura. Bobine che girano all’inconfondibile rintocco di Hard Sun: l’abbraccio conclusivo, il ringraziamento per lo scambio avvenuto, per la giostra di emozioni che ruota, metaforicamente, lungo il braccio di Vedder che si agita sulla cinque corde. Il secondo encore con Rockin’ in the Free World, l’artista che risponde “sì” al richiamo del suo pubblico, esce di nuovo per un ultimo saluto, per ricordare, come suggerisce Zio Neil, di non smettere mai di lottare, di sentirsi liberi. Congiunge le mani, Eddie, si commuove, accenna un non volersene andare.

Pensiero condiviso dall’intera Piazza Colbert e da me che, al termine del concerto, sono assalita da quella domanda “sintomo” che tutto è stato maledettamente perfetto: “E adesso, quando lo rivedrò?”. Sì, perché si è creato qualcosa di grande. Un varco di comunicazione empatica di cui avevo sentito la mancanza a Firenze. È stato come essere assaliti da quello stato di ebbrezza semi-divino, per cui le sbavature, gli errori, gli imprevisti vanno perdonati in quanto superati e compensati da molto altro. È stato come bere una coppa del nettare color rosso granato che porta il nome di Barolo. Assaporare, apprezzare il retrogusto ora più fruttato nei frangenti più melliflui e malinconici, ora più speziati, intensi quando è il vissuto più recondito a parlare. Quando ad invitarti al banchetto è un artista che indossa l’effige di una benedizione, di una condanna, di una generazione. Quando a brindare con te è semplicemente un uomo, Eddie Vedder.

LAURA FACCENDA

CONTRIBUTOR

Dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne e Contemporanee, prosegue gli studi nell’ambito della comunicazione e del giornalismo. Sulle orme delle sue due grandi passioni, la musica e la scrittura, frequenta il workshop di giornalismo musicale organizzato dalla rivista Rumore e il corso in Marketing, Management e Comunicazione della Musica presso la Santeria di Milano. Ha fatto parte della redazione del sito web di notizie e media Spazio RockJust Kids Magazine e dello staff dell’agenzia media/stampa Bizzarre Love Triangles. Collabora attualmente con la testata Vez Magazine e con Onstage. Lavora anche come copywriter creativa e ideatrice di testi.

HENRY RUGGERI

CONTRIBUTOR

Spacciandosi da fotografo di una rivista di settore, riesce ad entrare nel backstage dei suoi idoli, i Ramones. Era il 7 Maggio 1989, e da quel giorno non ha più smesso. Fotografo storico di Raro! ha ritratto dal vivo i più grandi della musica (Pearl Jam, U2, Rolling Stones, Bruce Springsteen e tanti altri) per numerose testate nazionali ed internazionali. Dal 2007 è il fotografo ufficiale di Virgin Radio.